LW35 è una profuga iraniana di 49 anni. Tentò di raggiungere l’Australia via mare insieme alle due figlie e al genero nel 2013, proprio l’anno in cui la coalizione di centrodestra guidata da Thomas Abbot vinse le elezioni e dichiarò tolleranza zero contro l’immigrazione irregolare. Da allora la guardia costiera australiana cominciò a bloccare i barconi che salpavano dall’Indonesia con a bordo afgani, pachistani, iraniani e altri asiatici in fuga dirottandoli verso Nauru, Christmas Island (Australia) o Manus Island (Papua Nuova Guinea), dove Canberra aveva dei centri di detenzione offshore per richiedenti asilo. In quei centri i profughi hanno atteso anni che le loro domande fossero esaminate, vivendo in condizioni disumane.

LW35, questa la sigla riportata sulla scheda con la sua testimonianza, fu prima portata a Christmas Island e poi finì a Nauru, l’isola-stato del Pacifico la cui economia dipende in buona parte dalla presenza del centro australiano. A Nauru rimase quattro anni, gran parte dei quali in realtà trascorsi fuori dalla struttura come rifugiata riconosciuta dal governo dell’isola. Dato che soffriva di ansia e depressione, il medico che l’aveva in cura le consigliò di non starsene tutto il tempo in casa e di uscire a fare delle passeggiate. Un giorno, mentre camminava sulla spiaggia, si sentì colpire molto forte alla testa da dietro. Cadde con la faccia nella sabbia e qualcuno cominciò a trascinarla tenendola per le gambe. Erano due uomini. “Lottai contro di loro più che potei, agitando gambe e braccia per divincolarmi”, racconta la donna. Esattamente come nella foto di questo articolo.


A quella colluttazione seguì uno stupro, che peggiorò le condizioni psichiche della donna, poi trasferita in Australia per essere curata. Nel 2019 ha ricevuto il permesso di vivere nel paese con la famiglia. “Nauru mi ha distrutto la vita”, confessa la donna.

Buona parte delle storie dei profughi finiti nei centri di detenzione australiani offshore sono state raccontate da chi era fuori, attivisti o giornalisti animati da buone intenzioni ma senza la forza e l’efficacia del racconto in prima persona. E anche quando la testimonianza di come l’Australia tratta i richiedenti asilo e i rifugiati è stata fatta dagli stessi protagonisti, non sempre le parole da sole sono state efficaci. Mancavano le immagini.

A parte il caso di Behrouz Boochani, che è riuscito a girare un documentario con lo smartphone nel centro di Manus Island, dove ha trascorso sei anni prima di ricevere asilo in Nuova Zelanda, e a farlo proiettare in giro per il mondo (compreso il festival di Internazionale a Ferrara), dei centri di detenzione per migranti per ovvie ragioni non ci sono foto.

Così uno studio di avvocati specializzato in class action, dopo aver fallito un tentativo di portare in tribunale il governo australiano per la sua politica migratoria, ha deciso di pubblicare online e in un libro le testimonianze delle decine di persone che rappresentava corredandole con foto generate attraverso un programma d’intelligenza artificiale sulla base di quei testi scritti. Le immagini dell’ia sono state poi lavorate con la consulenza degli stessi protagonisti delle storie che illustravano.

Un’operazione che, nell’intento dell’agenzia di comunicazione che l’ha ideata e dello studio legale che l’ha realizzata, serve a rendere più incisive le testimonianze e a creare un archivio della memoria di testi e immagini, ma che solleva degli interrogativi, come del resto l’uso dell’intelligenza artificiale in generale e in particolare in campo fotografico.

Alcune delle immagini raccolte in Exhibit A.I. – The refugee account hanno le caratteristiche e i difetti tipici delle foto create dall’ia, che però non a tutti possono risultare evidenti. Dunque potrebbero essere scambiate per foto autentiche, non è esattamente come se avessero usato delle illustrazioni ispirate dai racconti dei protagonisti. Possono delle immagini finte ma create a partire da elementi reali, e sistemate con la consulenza dei diretti interessati, avere un valore documentale?

Da sapere
Un appello

In occasione della visita a Canberra del primo ministro della Papua Nuova Guinea James Marape, che giovedì ha parlato al parlamento australiano, Amnesty international ha lanciato un appello al governo perché permetta ai 55 uomini rimasti in Papua Nuova Guinea dopo essere stati per anni detenuti nel centro di Manus Island di stabilirsi in Australia. L’accordo tra Canberra e Port Moresby per la gestione dei richiedenti asilo è infatti scaduto e da due anni il governo papuano non riceve fondi per occuparsi dei migranti rimasti.


Questo testo è tratto dalla newsletter In Asia.

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