La pandemia di covid-19 potrebbe diffondersi nelle popolazioni di scimpanzé, bonobo, oranghi e gorilla. E potrebbe causarne l’estinzione, allertano i primatologi. Le grandi scimmie vivono in piccole comunità al cui interno la trasmissione del virus sarebbe fortemente facilitata dalla promiscuità, dall’elevata socialità e i dai frequenti contatti. Il tasso di mortalità sarebbe molto alto, spiega su Science la primatologa Tara Stoinski del Dian Fossey gorilla fund. L’appiattimento della curva dei contagi sarebbe irraggiungibile perché è impensabile applicare un distanziamento sociale tra questi animali.
In Uganda, sette anni fa, il rhinovirus C responsabile del banale raffreddore contagiò una sessantina di scimpanzé del parco di Kibale: quaranta scimmie si ammalarono e cinque morirono. Quasi sicuramente il virus era stato portato da un essere umano, forse un turista, un ricercatore o un abitante del villaggio. In Costa d’Avorio, nel parco nazionale del Taï, ci sono stati diversi focolai epidemici causati da virus respiratori e streptococchi che hanno fortemente contribuito, insieme al bracconaggio e alla perdita di habitat, alla riduzione della popolazione di scimpanzé, che negli ultimi vent’anni è passata da tremila a quattrocento esemplari. Nella stessa foresta di Taï, nel 2017, alcuni scimpanzé contrassero un coronavirus umano.
Stop al turismo
Gli esseri umani e le grandi scimmie appartengono alla stessa famiglia di primati, gli Hominidae, e condividono gran parte del genoma. Il rischio che un virus possa passare da una specie all’altra è quindi elevato. Una ricerca pubblicata in via preliminare su bioRxiv ha osservato che gli scimpanzé condividono con gli esseri umani il recettore cellulare che converte l’enzima dell’angiotensina che il virus sars-cov-2 usa per entrare nelle cellule dell’ospite e dare il via all’infezione.
A fine aprile l’Ape alliance e l’African primatological society ha organizzato un seminario online per ricercatori, ambientalisti e veterinari su come proteggere dalla pandemia di covid-19 le comunità di grandi scimmie in Africa e Asia già minacciate dalla deforestazione, dal bracconaggio e dal commercio illegale. Per proteggere gli animali, alcuni governi africani hanno deciso di bloccare il turismo, che rappresenta un serio pericolo.
Secondo un rapporto pubblicato su Frontiers in Public Health, un quinto delle morti improvvise tra i gorilla di montagna è causato da virus respiratori trasmessi verosimilmente dalle persone. La metà dei 1.063 gorilla di montagna rimasti sul pianeta vivono nel parco nazionale di Bwindi, nell’Uganda sudoccidentale che conta quarantamila turisti all’anno. Il 98 per cento dei gruppi di turisti, si legge nel rapporto, non rispetta la regola dei sette metri di distanza dai gorilla. Spesso i turisti nascondono di essere malati, mettendo a rischio la salute dei gorilla.
Il parco ugandese di Bwindi sta formando le proprie guardie forestali su come prevenire l’ingresso del nuovo coronavirus e individuare tempestivamente eventuali contagi nelle comunità dei gorilla di montagna. A Taï e a Kibale i ricercatori che studiano le grandi scimmie devono stare in quarantena per un massimo di 14 giorni. Mentre nell’isola indonesiana di Sumatra sono stati reintrodotti circa 300 oranghi domestici in due aree della foresta rimaste senza oranghi selvatici a causa dello sfruttamento commerciale della foresta vergine: la speranza è che aumentando il numero di esemplari gli oranghi riescano a scampare al virus e alle altre minacce.
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