Questo articolo è stato pubblicato il 20 novembre del 2020 nel numero 1385 di Internazionale.

La diga di Kariba sta cedendo. Dalla fine degli anni cinquanta siede sul fiume Zambesi, al confine tra Zambia e Zimbabwe, in una delle gole tortuose che increspano quelle terre. Fornisce ai due paesi 1.830 megawatt di energia elettrica e racchiude le acque del bacino artificiale più grande del mondo. Nell’ultimo decennio scienziati e giornalisti hanno lanciato avvertimenti sui disastri ecologici che la diga potrebbe causare. Disastri di segno opposto.

Da una parte, le piogge scarse hanno fatto scendere talmente il livello dell’acqua che a malapena si riesce a generare elettricità. Dall’altra, quando le piogge sono intense le acque del bacino minacciano di inondare le aree circostanti. Nel 2010 l’apertura delle paratoie costrinse seimila persone a sgomberare la zona.

Il cambiamento climatico rende gli eventi meteorologici catastrofici, e quando si raggiungono certi estremi le dighe sono, be’, inflessibili. Nei periodi di siccità non si possono restringere per estrarre più forza da una quantità d’acqua minore e, peggio ancora, non si possono allargare per assorbire le alluvioni. Gli unici modi per gestire le inondazioni sono lasciar scorrere l’acqua sopra la diga o aprire uno scarico per lasciarla defluire in modo controllato. Nessuno di questi sistemi può essere applicato in sicurezza nella diga di Kariba a causa dei danni provocati dal passare del tempo.

La diga sorge su una base di gneiss e quarzite ed è costruita in calcestruzzo, con uno spessore massimo di 24 metri. L’acqua che da più di sessant’anni fluisce e precipita giù dalla diga ha scavato una fossa alla sua base e le fondamenta sono minacciate dall’erosione. Questa fossa oggi è un cratere profondo più di ottanta metri. Considerato che la facciata di pietra continua a sgretolarsi, è probabile che la diga non sia destinata semplicemente a cedere, ma a crollare. In questo caso, scriveva la Bbc nel 2014, la valle dello Zambesi sarebbe spazzata da uno tsunami così potente da abbattere un’altra diga a 160 chilometri di distanza, la Cahora Bassa, in Mozambico. Questi due disastri combinati cancellerebbero il 40 per cento dell’energia idroelettrica prodotta nell’Africa meridionale.

Allo stesso tempo le stagioni calde sempre più lunghe hanno prosciugato il bacino, facendo scendere il livello dell’acqua ai minimi storici. Le interruzioni di corrente causate dalla siccità sono diventate una realtà quotidiana per famiglie e aziende. La Banca mondiale finanzia alcuni progetti per mettere in sicurezza la diga, ma ogni tentativo di aggiustarla o ingrandirla rischia invece di indebolirla ancora di più. Che l’acqua sia troppo alta o troppo bassa, in gioco c’è la vita di milioni di persone, per non parlare dell’ambiente naturale.

È una storia di ordinaria e apparentemente inevitabile follia degli esseri umani. Uno dei nostri sforzi più ambiziosi per imbrigliare la potenza della natura ci ha esposti ai suoi capricci. È un fallimento del nostro potere di fare previsioni? Quando parliamo di cambiamento climatico, parliamo della nostra incapacità di prevedere e controllare quello che succederà, del fatto che non possiamo bagnarci due volte nello stesso fiume. E, per molti versi, siamo fuori tempo massimo. Non seguiamo più il ritmo delle relazioni circolari tra sole, pioggia e terra. Ci siamo condannati da soli, ci siamo preclusi la possibilità di imboccare sentieri che si biforcano, di usare i verbi al congiuntivo, il modo che indica ciò che immaginiamo o desideriamo. I rami di un fiume ci fanno pensare a come potrebbero o dovrebbero essere. Il congiuntivo invece – quando parliamo di fiumi, o di tempo – non va in un’unica direzione. Se ci voltiamo indietro è chiaro: non doveva andare per forza così.

Una guerra sul passato

La storia della diga di Kariba è la storia di una guerra sul passato e sul futuro di un fiume. Questa guerra è stata combattuta negli anni cinquanta tra le potenze coloniali europee e gli abitanti di quella che per dieci anni (dal 1953 al 1963) fu la Federazione centrafricana o Federazione di Rhodesia e Nyasaland. Unire tre territori vicini, legati per vie diverse all’impero britannico, fu un esperimento coloniale di breve durata o un fiasco, a seconda delle prospettive.

La Rhodesia Meridionale (oggi Zimbabwe) era una colonia autonoma fondata dalla British South Africa Company (la compagnia coloniale creata alla fine dell’ottocento da Cecil Rhodes); la Rhodesia Settentrionale (oggi Zambia) e il Nyasaland (oggi Malawi) erano protettorati britannici. La decisione di unire i tre territori fu presa dai colonizzatori con obiettivi di mero sfruttamento economico e bieco risparmio. I funzionari coloniali avevano accontentato alcuni capi tribali affidandogli cariche puramente onorifiche nelle istituzioni indigene. Ma gli africani più giovani, istruiti e radicali – alcuni di loro avevano perfino combattuto per il Regno Unito nella seconda guerra mondiale – volevano avere più voce in capitolo sul loro destino, e si opposero al progetto della federazione. Sostennero le loro posizioni nei consigli locali. Organizzarono proteste e boicottaggi: “Abbasso la federazione! Al diavolo la federazione!”. Temevano che il centro del potere si sarebbe spostato nella Rhodesia Meridionale, dov’era in vigore un sistema di segregazione razziale molto rigido (gli africani, per esempio, non potevano andare nei bar, hotel o cinema negli stessi orari degli europei), che sembrava destinato a estendersi nei territori vicini, una volta creata la federazione.

La scelta del luogo dove costruire la diga sul fiume Zambesi fu dettata proprio da questo spostamento gravitazionale. Le sorgenti si trovavano in quello che era il nordovest della nascitura federazione, vicino alla frontiera con l’Angola e quello che allora si chiamava Congo belga (l’attuale Repubblica Democratica del Congo). Da lì il fiume scendeva attraverso il territorio della Rhodesia Settentrionale prima di piegare a est, seguendo – e di fatto delimitando – la frontiera con la Rhodesia Meridionale. Poi attraversava il Mozambico fino a sfociare nell’oceano Indiano. Il suo tributario più importante, il Kafue, confluiva nello Zambesi da nord, al centro del tratto tra le due Rhodesie.

Canoe sul lago Kariba, Zimbabwe, 8 settembre 2018. (G. Cozzi, De Agostini/Getty Images)

Appena a sud di quella confluenza c’era una gola chiamata Kariba. Negli anni quaranta si discusse a lungo se costruire la diga sul fiume Kafue o nella gola di Kariba. La Rhodesia Settentrionale aveva deciso di costruirla sul Kafue, perché era più vicino alla copperbelt (cintura del rame), una preziosa regione mineraria con dei centri urbani. Il Kafue scorre attraverso pianure alluvionali naturali. La diga – che fu realizzata negli anni settanta – sarebbe stata più piccola e complicata da costruire, ma avrebbe creato meno problemi per la popolazione e per l’ambiente. Tuttavia, dopo la nascita della federazione nel 1953, la Rhodesia Meridionale lottò affinché fosse costruita prima la diga di Kariba.

In quel frangente cruciale perché il governo della federazione prese il bivio per Kariba? Fu una questione di potere. Un ingegnere francese, André Coyne, insistette su questo sito sostenendo che avrebbe fornito più energia, con un migliore rapporto tra costi e benefici. I rhodesiani del sud, inoltre, volevano che la diga fosse più vicina alla nuova sede del potere politico, la capitale della federazione Salisbury. La diga di Kariba sarebbe stata un trionfo tecnologico e un grande progetto imperiale che avrebbe accresciuto la reputazione delle lontane colonie. News-week la definì un monumento al “know-how del capitale occidentale” e scrisse che “quando il fiume Zambesi fu imbrigliato, la regina madre esultò”.

La trappola

L’impresa francese di Coyne progettò una diga a doppia curvatura. Un’azienda italiana, la Fiat Impresit, fu incaricata di costruirla. La Banca mondiale concesse un finanziamento. Nel 1957 fu creata la Società per lo sviluppo del lago Kariba – il cui personale era in gran parte britannico – che doveva portare avanti delle ricerche ed elaborare dei regolamenti per le questioni sociali e ambientali. Non si fece nessuna valutazione dell’impatto ambientale della diga, e tanto meno dei costi umani. Solo a metà dei lavori il governo della federazione cominciò a preoccuparsi di cosa fare delle 57mila persone che vivevano nella valle di Gwembe, che sarebbe stata inondata per costruire la diga. In questo posto da secoli gli abitanti vivevano di pesca e coltivavano la terra, resa fertile dalle piene stagionali. Quel posto per loro era casa.

Il nome Kariba è una storpiatura di kariva o kaliba, un termine locale che significa “trappola”. Si chiamava così un altro punto del fiume, all’ingresso della gola, dove c’era un’enorme lastra di pietra che spuntava fuori dall’acqua. Secondo una leggenda che circolava tra i tonga, gli abitanti del posto, la grande lastra faceva parte di un gruppo di tre rocce che in un’epoca precedente formavano una specie di ponte, una struttura che somigliava alle trappole usate per catturare gli animali. Ma un’inondazione aveva portato via le altre due. La lastra era l’unico resto di un evento geologico e, da un altro punto di vista, un avvertimento. Secondo altre leggende era la casa del dio del fiume, Nyaminyami, dalla testa di pesce e il corpo di serpente attorcigliato come un mulinello. I britannici diedero un’occhiata a quella grande roccia e decisero che era il posto migliore per costruire una diga, e che Kariba era il nome giusto per spiegare ai tonga cos’era una diga, anche se era pronunciato male, perché gli inglesi non erano capaci di dare alla b e alla l la morbidezza tipica delle lingue bantu.

Intrappolare un fiume? L’idea era così strana che i tonga ignorarono i commissari del distretto incaricati di andare in giro nella zona per convincere gli abitanti che la diga sarebbe stata costruita e che le loro case ancestrali sarebbero finite sott’acqua. Come scrive David Howarth nella sua parziale ma avvincente storia della diga di Kariba,The shadow of the dam, del 1961, “l’idea di fermare il fiume era assurda” per i tonga: “Molti di loro avevano accettato l’idea che gli europei ci avrebbero provato. Ma gli europei non conoscevano il fiume come lo conoscevano loro. Per gli anziani il fatto che qualcuno potesse pensare di fermare il fiume sbarrandolo con un muro era solo una prova del fatto che non aveva idea della sua forza. Ci provassero pure! Il fiume avrebbe abbattuto il muro o l’avrebbe aggirato”. E fu così che andò.

Le piogge stagionali possono gonfiare lo Zambesi a un livello venti volte superiore a quello della stagione secca. Alla fine del 1956, dai villaggi a monte del fiume arrivò la notizia che era in arrivo una “piena eccezionale”, così eccezionale che sarebbe stata ribattezzata “la piena dei cent’anni”. L’acqua salì di più di venti metri e coprì interamente il cassone di fondazione che era già stato installato per la costruzione. Quando l’acqua si ritirò, era andata dispersa solo una gru, ma gli ingegneri rimasero scossi dallo spettacolo inatteso e spaventoso della pioggia torrenziale. Costruirono un secondo cassone, in una posizione più elevata, ma non abbastanza. Nella successiva stagione delle piogge i fiumi tributari unirono di nuovo le forze. Le possibilità che si ripetesse un disastro come quello precedente erano stimate in una su mille.

L’apertura delle paratoie della diga di Kariba, il 20 febbraio 2015. (Jekesai Njikizana, Afp/Getty Images)

La piena “dei mille anni” del 1958 spazzò via un ponte sospeso, che “si contorse come un serpente quando arrivò l’acqua”. Il fiume salì di 35 metri, fino alla cima del secondo cassone e si rovesciò dall’altra parte creando una cascata di otto metri e mezzo. I tonga erano stati presi in giro per le loro credenze e superstizioni secondo le quali “l’enorme serpente” che viveva nello Zambesi “si sarebbe arrabbiato con il muro dell’uomo bianco e l’avrebbe distrutto”. Ora il giornalista Frank Clements (autore di un libro sulla diga del 1959) scriveva: “Nyaminyami aveva messo in atto la sua minaccia. Aveva riconquistato la gola”.

La diga sembrava maledetta. Durante la costruzione alcune impalcature cedettero: diciassette operai caddero e rimasero sepolti nel calcestruzzo ancora fresco. Alcuni dicono che i loro resti furono recuperati, secondo altri sono tumulati nella diga. Quando le acque si ritirarono, gli ingegneri accelerarono i lavori perché la diga fosse ultimata prima della successiva stagione delle piogge. Questo significava anche mettere urgentemente in salvo la fauna della valle di Gwembe prima che diventasse il più grande lago artificiale del mondo.

L’“operazione Noè”, come fu messianicamente chiamata dai conservazionisti bianchi, riuscì a catturare e a spostare seimila animali, ma altre migliaia di esemplari morirono sott’acqua. Questa attenzione per gli animali come principali vittime della diga è tipica della narrazione su Kariba e resiste ancora oggi: nel 2014 il sito della Bbc ha dedicato un articolo a un babbuino che vive solo e “abbandonato” su un’isola in mezzo allo Zambesi.Di fronte ai trasferimenti forzati, gli esseri umani si dimostrarono più determinati degli animali. Il governo stabilì che i tonga dovevano andare a Lusitu, un’area più a nord, e cominciò a caricare sui camion gli abitanti di 193 villaggi. Ma le nuove terre erano aride e pietrose.

Quasi subito tra i tonga scoppiò un’epidemia di dissenteria. L’agricoltura che praticavano, basata sulle piene stagionali e sul riposo dei terreni a maggese, non era possibile nel nuovo posto. Il rapporto tra terra e abitanti era squilibrato. Le leggi tradizionali che riguardavano la distribuzione dei terreni furono sovvertite. Chi non aveva ancora lasciato la valle di Gwembe, di fronte alla violazione delle sepolture ancestrali e all’offerta di risarcimenti inadeguati, aveva ancora meno ragioni per andarsene. Alcuni aderirono alle posizioni del Congresso nazionale africano, un nuovo partito politico nonviolento che chiedeva la dissoluzione della federazione e in seguito guidò il movimento che decolonizzò i tre paesi. In risposta ai ricollocamenti, il Congresso incoraggiò la disobbedienza civile.

Secondo il classico modello coloniale, dopo una campagna di persuasione le autorità prima insistettero, poi ricorsero alla violenza. Le leggi della Rhodesia Settentrionale vietavano i trasferimenti coatti, perciò i funzionari coloniali convinsero l’autorità indigena tonga ad approvare un’ordinanza da tradurre e trasmettere alla popolazione: “Il governo è convinto che il piano Lusitu risponda ai nostri interessi e ora intende mettere in atto il trasferimento senza esitazioni. Chi oppone resistenza sarà trasferito con la forza, ricorrendo alla polizia che vedete qui oggi. Chiunque ostacoli le operazioni sarà perseguito. Quando tutti gli abitanti saranno stati trasferiti, le loro capanne saranno distrutte”.

La popolazione si ribellò. Gli abitanti del villaggio di Chisamu, governati dal loro capo Chipepo, lanciarono delle cariche contro la polizia, urlando e impugnando le lance, suonando i tamburi e intonando canti di guerra. Seguì uno stallo che durò per giorni, con la polizia che svolgeva esercitazioni e la gente di Chipepo che la imitava. “Marciavano avanti e indietro in fila indiana”, scrive Howarth, “portando le lance sulle spalle a mo’ di fucili, con gli istruttori che camminavano di fianco alle colonne come sergenti o comandanti di plotoni. Sembrava una parodia, ma forse lo facevano per darsi forza”.

Il governatore della Rhodesia Settentrionale fu coinvolto per una indaba (conferenza) con i capi tradizionali, ma fu inutile. Quando la polizia caricò gli abitanti dei villaggi esplosero le violenze. Otto tonga furono uccisi. La popolazione si piegò. La diga fu completata. La valle inondata.

Oggi i pescherecci e le crociere dei turisti scivolano sulle acque sempre più basse del lago. La cosa più inquietante e più bella del lago Kariba – l’attrazione principale per i turisti – è che gli alberi sommersi della valle di Gwembe sono ancora là. Li si vede protendersi verso l’alto dal fondo, allungare i rami fuori dall’acqua, biforcarsi contro il cielo. “La potenza della tecnologia moderna è stata quasi fatta prigioniera dalle forze primigenie e selvagge dell’Africa”, scrisse Clements della diga nel 1959. In questa iperbole manichea, il giornalista fonde la potenza della natura, il mito di Nyaminyami e la resistenza dei tonga, anche se sminuisce tutte e tre le cose. Alla fine la potenza della tecnologia moderna vinse, sfuggì alla trappola, o forse ne diventò una a sua volta. In molte ricostruzioni degli storici, la vicenda della diga di Kariba diventa una storia paternalistica su come la fede entusiastica nel “progresso” abbia sopraffatto una sfortunata tribù di un popolo “inferiore”, come lo definì l’esploratore scozzese David Livingstone.

Un altro modo di vedere le cose è che la costruzione della diga di Kariba dirottò un’immensa ricchezza nelle mani delle compagnie coloniali, a scapito degli abitanti della valle di Gwembe, che oggi sono considerati “rifugiati dello sviluppo” e non hanno un accesso adeguato all’acqua e all’elettricità. Nel 2000 tre dei distretti dove vivono i tonga non erano ancora serviti dalla rete elettrica nazionale. Le dighe oggi portano la ricchezza verso i nuovi colonizzatori. La China National Complete Engineering Corporation sta costruendo una nuova immensa diga da 449 milioni di dollari su un immissario dello Zambesi più vicino alla copperbelt (la costruzione è stata fermata recentemente perché il governo zambiano era in ritardo con i pagamenti, e per le forti piogge). In patria Pechino sta passando dall’energia idroelettrica a quella solare ed eolica. I cinesi sanno bene che, per affrontare la crisi climatica, trovare delle alternative alle dighe è meglio che cercare di aggiustarle.

Richieste ragionevoli

Lo sanno anche gli africani. Nel 2014 Partson Mbiriri, allora presidente dell’autorità che governa il fiume Zambesi, disse alla Bbc: “È importante pensare all’energia solare, partendo dal presupposto, ovviamente, che continueremo ad avere il sole”. Diverse autorità – coloniali, governative, ambientali, giornalistiche; oggi come ieri, ben intenzionate o opportuniste – si sono sempre preoccupate di spiegare agli africani cosa succede se si abbandona la strada del progresso, ma non si sono mai prese il disturbo di ascoltarli. Gli africani della federazione, in realtà, elencarono una serie di questioni e richieste lungimiranti.

Nel 1955 il leader del Congresso nazionale africano della Rhodesia Settentrionale, Harry Nkumbula, scrisse alla regina d’Inghilterra chiedendole di nominare una commissione che includesse degli africani “per stabilire se è giusto che le persone siano spogliate delle loro terre”; se per generare l’elettricità “il nucleare non fosse meglio della diga”; se il risarcimento ricevuto dalle persone fosse sufficiente e se “le terre dove venivano trasferite fossero di pari valore” e fertilità. Forse la follia non appartiene a tutte le culture.

Quando fu informata della diga per la prima volta, l’autorità indigena di Gwembe presentò 24 richieste che riguardavano il diritto alla terra, alla proprietà, agli indennizzi, alla protezione, all’informazione. L’undicesima era: “Nel trasferire le persone, le loro scelte devono essere prese seriamente in considerazione prima di essere ignorate”. Quando la gente di Chipepo inscenò la rivolta, che si rivelò inutile, scrisse messaggi in inglese e li inviò ai funzionari del distretto e alle autorità indigene, o li inchiodò agli alberi sul campo di battaglia: “Moriremo nella nostra terra… Non vogliamo essere trasferiti a Lusitu o da nessun’altra parte. Non andremo a casa finché non ritirerete l’esercito. Non combatteremo con le armi ma con le parole”. Cosa sarebbe successo se le loro parole fossero state ascoltate con attenzione e rispetto?

I tonga conoscevano lo Zambesi. Sapevano che un fiume tiene il tempo, non come un orologio, ma come un diario. Conoscevano i suoi sedimenti e i suoi solchi, le abitudini degli esseri che ci vivevano dentro e vicino, la sua potenza e le sue tendenze. La roccia di kariva era la testimonianza di un fiume che aveva abbattuto i suoi tre gemelli di pietra, un fiume così possente da sembrare la casa di un dio. Un fiume può incanalare l’acqua in un’energia immensa. Un fiume può inondare, espandersi nello spazio aperto davanti a sé. Un fiume è una forza singola, trainante, ma anche distributiva, ramificata. I tonga avevano vissuto a lungo e pacificamente sulle sue sponde, attraversandolo in entrambi i sensi per andare a corteggiare le spose, cercare da mangiare, visitare i parenti. Sapevano che non possiamo fermare un fiume; possiamo navigarlo, attraversarlo e muoverci insieme a lui. Possiamo seguire i suoi percorsi. Possiamo entrarci dentro quante volte vogliamo, ma non possiamo restarci.

Questo articolo è stato pubblicato il 20 novembre del 2020 nel numero 1385 di Internazionale.

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