Non sono oppositori politici né giornalisti impegnati o attivisti di professione. Nella maggioranza dei casi sono marocchini medi: liceali, cantanti dilettanti, piccoli commercianti o disoccupati. Tutti giovani, addirittura adolescenti. Hanno una cosa in comune: esprimono tramite YouTube la disperazione dei giovani marocchini e il fossato sempre più profondo che separa ricchi e poveri. Questa non è una novità. La novità, però, è che hanno criticato anche il re Mohammed VI e hanno preso in giro i suoi discorsi “che non servono più a niente e che non entusiasmano più”. Fino a oggi infatti a prendersela con il re erano soprattutto i marocchini residenti all’estero (“mre”), al riparo quindi dalla legge che punisce con il carcere qualsiasi critica alla monarchia. Quello che sta succedendo è un vero e proprio ribaltamento delle forme di contestazione politica.

Tutto è cominciato il 29 ottobre 2019 con una canzone postata su YouTube. Ci sono tre giovani rapper che denunciano con parole crude la corruzione e le ineguaglianze sociali, prendendosela esplicitamente con il re Mohamed VI:

Chi ha stritolato il paese e continua a cercare la ricchezza? (…) Chi ci ha messo in questo pasticcio? Voi avete violato la nostra dignità. (…) In questo paese siamo in quaranta milioni, ma trenta milioni restano qui perché sono costretti. (…) La mia vita non ha alcuno scopo (…) Sono colui che ha riposto la sua fiducia in te e che è stato tradito (…). Sono il berbero che sogna un Rif migliore…

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Questa canzone ha avuto più di 23 milioni di visualizzazioni su YouTube (i marocchini che hanno votato alle ultime elezioni sono solo 13 milioni). Gli autori? Tre giovani rapper provenienti dai quartieri popolari di Casablanca e soprannominati L’Zaar, Weld Legriya e L’Gnawi (noto anche come Gnawi o Simo Gnawi). Il titolo della canzone è uno slogan molto diffuso tra i giovani contestatori: Aacha chaab (“Viva il popolo”), una parafrasi sovversiva dello slogan “viva il re”.

Il sistema giudiziario si è messo subito in moto. L’Gnawi, il cui vero nome è Mohamed Mounir, è stato arrestato e poi condannato il 24 novembre 2019 a un anno di carcere. L’accusa non fa alcun riferimento a motivi politici: il rapper è stato condannato per “oltraggio alla polizia”. Qualche giorno dopo una vera e propria valanga di arresti e condanne si è scatenata contro giovani marocchini per lo più sconosciuti.

Il 15 dicembre un adolescente di 18 anni, Ayoub Mahfoud, si è preso tre anni di carcere dopo aver condiviso la canzone Aacha chaab sulla sua pagina Facebook. Stavolta l’accusa è stata esplicitamente politica: il giovane liceale è stato condannato per “attentato al re”. Dopo l’ondata di sdegno suscitata da questa sentenza, il 16 gennaio il tribunale ha deciso di rimetterlo in libertà provvisoria, ma le accuse restano in piedi e a fine marzo dovrà essere processato.

Il 26 dicembre Mohamed Sekkaki, soprannominato “Moul Kaskita” (“l’uomo con il berretto”), un disoccupato di Settat, una città povera tra Casablanca e Marrakesh, è stato arrestato con l’accusa di “oltraggio a un’istituzione ufficiale”. Anche in questo caso la motivazione politica è occultata: in realtà ha postato un video in cui si prendeva gioco del re:

Quei discorsi che leggi tremando non ci entusiasmano più. (…) Quando ti ammali non ti curi qui, nel tuo paese, nei nostri ospedali, tu vai a curarti all’estero. Tu dici ‘mio amato popolo’ ma il tuo popolo soffre il martirio per le ineguaglianze e le ingiustizie…

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È stato condannato a quattro anni di carcere.

Il 26 dicembre, per un tweet pubblicato ad aprile del 2019 in cui contestava il giudice che aveva presieduto al processo contro il movimento Hirak Rif, il giornalista Omar Radi è stato rinchiuso nel carcere di Casablanca per “oltraggio a un magistrato”. Anche in quel caso, dopo la mobilitazione della società civile, il giudice ha deciso di rimetterlo in libertà provvisoria il 31 dicembre, mantenendo comunque in piedi le accuse.

Il 1 gennaio un adolescente di 17 anni, Hamza Asbaar, è stato condannato a quattro anni di carcere per aver postato su YouTube la sua canzone dal titolo On a compris (“Abbiamo capito”), in cui attaccava esplicitamente il re e i suoi discorsi “che non abbiamo mai capito”, per dirla con le sue parole:

“Non la finiamo più di ascoltare i tuoi discorsi, che non abbiamo mai capito. (…) La costituzione è stata fatta su misura per lui. (…) Tu hai capito, abbiamo capito…

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Il 16 gennaio il tribunale di Lâayoun, nel Sahara occidentale, gli ha ridotto la pena da quattro anni a otto mesi. Ma resta in carcere.

Quest’ondata di repressione – la lista è molto lunga – contro giovani youtuber che vivono in Marocco e hanno criticato in modo del tutto consapevole il monarca e la sua politica si spiega senza ombra di dubbio con la volontà di reprimere qualsiasi forma di libertà di espressione e, secondo fonti vicine al palazzo, di “ristabilire l’hiba, cioè il dono, della monarchia e dello stato”, incarnato da un monarca sempre più impopolare.

Con il passare degli anni Mohamed VI ha costruito la sua comunicazione politica sull’immagine e il movimento: quella di un giovane re popolare che va incontro ai suoi sudditi. Abbondano le immagini che lo ritraggono mentre inaugura progetti locali o distribuisce doni in natura (a volte cartelle o cestini contenenti olio e farina) a persone scelte dagli agenti del ministero dell’interno in alcune città o villaggi, di solito alla vigilia del ramadan.

È stato inoltre presentato dai canali televisivi ufficiali (Al Oula, 2M, Medi1Tv, i cui giornalisti somigliano più a piccoli funzionari dello stato che a reporter) come l’unica istituzione “che funziona e che si muove”, l’unica che vale davvero. Al cospetto del monarca definito anche come “l’unico attore affidabile”, il governo, i partiti politici o il parlamento incarnerebbero la mediocrità, l’opportunismo e l’inefficienza, cosa peraltro assolutamente vera. Con un ritornello tipicamente orientale, il re viene spesso presentato come il buon califfo circondato da cattivi visir: Lmalik zouine, lidayrine bih li khaybine (“il re è buono, i cattivi sono quelli che lo circondano”).

Oggi queste strategie non tirano più e la popolarità di Mohamed VI arranca. Dopo più di vent’anni di potere assoluto l’immagine del re è rovinata dalla vastità dei problemi che la maggioranza dei marocchini deve affrontare. I progetti di sviluppo promessi più volte dal sovrano, i cantieri definiti “strutturanti” e le promesse di riforma sembrano aver avvantaggiato solo una piccola minoranza di fortunati, per stessa ammissione del monarca. Per non parlare della riforma dell’insegnamento, della lotta contro la corruzione, della povertà e delle ingiustizie sociali che hanno raggiunto proporzioni pericolose anche per la stabilità del regime.

Una popolarità in calo
Le decisioni del re sono inoltre sempre più incoerenti e poco rigorose, e questo non contribuisce certo a migliorare le cose dal punto di vista della popolarità. L’arresto di Omar Radi è avvenuto a pochi giorni di distanza dalla nomina da parte del re di una commissione per lo sviluppo presieduta dall’ambasciatore del Marocco a Parigi Chakib Benmoussa. Uno dei suoi componenti, il docente universitario Rachid Benzine, vicino al palazzo e nonostante ciò indignato, ha scritto in un tweet: “La detenzione di Omar Radi ci interroga e ci ricorda che nessun modello di sviluppo potrà essere difeso né praticato senza la garanzia della libertà di espressione e di informazione. Lo sviluppo implica la critica e lo scambio di idee, in caso contrario non esiste”.

Pur relativa in assenza di sondaggi sulla monarchia (che in Marocco sono vietati), la crescente impopolarità di Mohamed VI si misura soprattutto attraverso i social network, dove migliaia di marocchini possono esprimersi con relativa libertà. Il fatto ad esempio che la canzone Aacha chaab sia stata ascoltata da 23 milioni di marocchini e commentata in termini positivi da migliaia di visitatori la dice lunga sulla popolarità offuscata del “re dei poveri”.

Peraltro se le critiche e le prese in giro dei giovani youtuber non risparmiano la persona del re, sono i suoi discorsi a essere presi di mira, e a ragione: è lui il mastro orologiaio e i marocchini lo sanno bene. È per questo che se all’inizio del suo regno le sue parole avevano generato grandi aspettative, oggi suscitano una delusione altrettanto grande.

Per mettere a tacere queste voci che emergono spontaneamente criticando il re sui social network, la monarchia si affida a una polizia che ricorda il vecchio regime tunisino di Zine el Abidine Ben Ali e di giudici poco rispettosi della loro indipendenza.

Dalla chiusura del Journal hebdomadaire (fiore all’occhiello della stampa indipendente in Marocco tra il 1997 e il 2010), esattamente dieci anni fa, quel che resta della stampa privata continua a essere schiacciata dalle pressioni economiche e dalle minacce giudiziarie. Anche a questo livello è cruciale il ruolo della giustizia, asservita al palazzo e all’entourage reale.

Con l’ampliarsi della repressione, la giustizia marocchina è messa all’indice dalle ong (marocchine e internazionali) e presentata come il braccio secolare del re e del suo entourage. Non solo il monarca nomina i magistrati, ma le sentenze sono pronunciate a nome suo e lui è il presidente del consiglio superiore della magistratura. Nei processi politici che continuano a svolgersi a Meknes, Lâayoun o Casablanca, è al tempo stesso giudice e parte in causa. È quanto constatano con amarezza i difensori dei diritti umani, che continuano a chiedere una vera separazione dei poteri.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è stato pubblicato sul sito Orient XXI.

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