Attenzione: l’articolo contiene immagini cruente.

Il 25 luglio ci siamo alzati con il mare mosso, nel Mediterraneo centrale, a circa 15 miglia a nord della città libica di Sabrata, in acque internazionali. L’Open Arms, imbarcazione di salvataggio della ong spagnola Proactiva open arms, si muoveva in un modo che lasciava credere che non ci sarebbero stati soccorsi in tutta la giornata. Sembrava impossibile che le carrette del mare fossero in grado di lasciare le coste libiche con questo vento.

Quando Roger, uno dei soccorritori che partecipavano alla missione, è stato chiamato nella sua cabina e invitato a salire in coperta, mi sono affacciato al portello e, vedendo l’altezza delle onde, ho pensato che dovesse trattarsi di una simulazione per allenarsi al soccorso con il mare grosso. Erano le undici del mattino. Ho preso macchina fotografica, giubbotto di salvataggio e casco e sono salito in coperta.

Non era una simulazione. Era arrivata una chiamata sul ponte e la squadra di salvataggio doveva far scendere in mare due lance rapide e dirigersi verso un’imbarcazione che si trovava a 12 miglia dalla nostra posizione. Per percorrere questa distanza, con il mare mosso, è servita quasi mezz’ora. Tutto lasciava intuire che il soccorso non sarebbe stato facile.

L’aereo militare che aveva avvistato lo scafo è passato varie volte sopra di noi mentre ci dirigevamo al nostro obiettivo. Quando siamo arrivati ci siamo trovati di fronte a un gommone stracolmo, con più di 180 persone a bordo. Mentre una delle lance rapide si avvicinava allo scafo a poppa per distribuire i giubbotti di salvataggio ai passeggeri, l’altra si avvicinava a prua, dove vari bambini sorridevano al personale della squadra di soccorso, in netto contrasto con i volti pieni di panico degli adulti.

L’attesa prima di essere soccorsi dagli operatori della ong spagnola Proactiva open arms, al largo delle coste libiche, 25 luglio 2017. (Santi Palacios, Ap/Ansa)

Un nigeriano gridava che c’erano persone morte a bordo. Accanto a lui, un altro diceva che varie persone erano cadute in mare nella notte. Un altro diceva che c’erano cinque morti, altri dicevano due. Ma non c’era modo di saperlo con esattezza.

Erano partiti da Sabrata alle 14 del giorno precedente. Il motore si era rotto dopo aver lasciato la costa e il loro scafo era finito alla deriva. Erano rimasti quasi 24 ore in acqua, il che spiegava perché fossero lì nonostante le cattive condizioni del mare.

Abbiamo effettuato vari giri intorno allo scafo. Il piano era distribuire a tutti i giubbotti salvavita e rimanere al loro fianco finché l’Open Arms non avesse raggiunto la nostra posizione, il che avrebbe richiesto almeno un’ora di tempo con questo mare. C’erano persone che vomitavano o gridavano. Persone che avevano perso conoscenza o sul punto di svenire. Alcuni settori del gommone perdevano aria e quelli che vi si appoggiavano rischiavano di cadere in acqua.

Nell’istante catturato da questa fotografia, le persone erano in piedi sopra i cadaveri di madri, mogli e mariti dei sopravvissuti, anche se allora non sapevamo quanti corpi ci fossero là sotto.

I migranti ricevono i giubbotti di salvataggio durante i soccorsi, 25 luglio 2017. (Santi Palacios, Ap/Ansa)

Dopo alcuni minuti la squadra di salvataggio riteneva che tutti avessero un giubbotto di salvataggio. Una simile azione è fondamentale: se le persone cadono in acqua, e in questa circostanza può accadere facilmente, la differenza tra avere un giubbotto e non averlo equivale alla differenza tra vivere e morire.

L’Open Arms distava più di sei miglia e a ogni onda vedevamo lo scafo scomparire dietro alla cresta. I soccorritori hanno allora deciso di trasportare i bambini sulle nostre lance, dato il rischio che le persone cominciassero a cadere in acqua.

Abbiamo fatto salire tre bambini e una donna, sperando che fosse la madre, affinché si potesse occupare di loro mentre continuavamo a lavorare.

I piccoli apparivano tranquilli inizialmente, ma la donna sembrava sul punto di svenire. Ci è stato detto che la mamma dei bimbi era morta, a bordo dello scafo. “Mamma! Mamma!”, gridava uno di loro.

Abbiamo fatto sedere la donna a poppa della lancia, insieme al comandante, e le abbiamo messo in braccio il più piccolo dei bambini, mentre gli altri due si sono addormentati abbracciandosi. La donna voleva essere d’aiuto ma era sull’orlo dello svenimento, incapace di parlare.

In situazioni così caotiche, ci sono molte foto che non vengono scattate. Sono quelle che più si ricordano

Eravamo ormai in grado di vedere la nave di Proactiva. In pochi minuti, con l’Open Arms che si era unita a noi, siamo riusciti a trasferire gli altri passeggeri dallo scafo alle nostre lance.

Abbiamo cominciato con le donne, e mano a mano che lo facevamo appariva chiaro che quanto accaduto era molto peggio di quanto avevamo pensato: molte erano seminude o nude, traumatizzate. In mezzo al caos s’intravedevano ferite e bruciature. Più tardi, due di loro hanno confermato all’équipe medica di essere state violentate in Libia.

In situazioni così caotiche, ci sono molte foto che non vengono scattate. La situazione non lo permette. A volte sono proprio queste quelle che più si ricordano.

L’istante che rimane impresso a fuoco nella mia memoria è quando abbiamo aiutato una donna a passare dallo scafo alla nostra imbarcazione. Era completamente nuda, coi capelli rasati e gridava senza sosta “muoio!”. È crollata a terra sulla nostra lancia, piangendo e pronunciando queste parole, mentre cercava di liberarsi del giubbotto di salvataggio.

Ho provato a sollevarla e lì ha cominciato a gridare altre parole che non sono riuscito a capire. Sembrava sul punto di perdere conoscenza. Ha ricominciato a strillare, prima di cominciare a ridere in maniera compulsiva, per poi svenire.

È rimasta appoggiata alle spalle di un’altra donna, alla quale ho chiesto di provare a mantenerla sveglia mentre finivamo d’imbarcare gli altri passeggeri dello scafo. Siamo riusciti a portarli tutti sull’Open Arms, dove li attendeva l’équipe medica. Dal cuoco, passando per il personale di bordo e il direttore di macchina, tutti hanno dato una mano per farli salire a bordo. Ma sapevamo che dopo i vivi sarebbe arrivato il turno dei morti

Mano a mano che facevamo salire le persone cominciavamo a vedere i cadaveri. Quelli rimasti sullo scafo camminavano sui morti per salire sulla nostra lancia. L’odore di gasolio era sempre più forte, c’era vento e il sole picchiava forte.

In attesa dei soccorsi nel mar Mediterraneo, 25 luglio 2015. (Santi Palacios, Ap/Ansa)

Dopo aver imbarcato i vivi, abbiamo scoperto che i cadaveri erano più di quanti avessimo pensato. Il mio collega Mikel Konate, che era a bordo dell’altra lancia, ha visto che uno dei corpi rimasti in mezzo ai cadaveri si muoveva. La squadra di soccorso ha chiesto alle persone più vicine di aiutarlo: l’uomo stava per morire. È stato trasportato sull’Open Arms, dove una dottoressa si è occupata di lui.

Dopo aver trasportato tutti i sopravvissuti, sono salito alcuni minuti sull’Open Arms, dove ho visto la stessa donna che avevamo trasportato in stato di shock sulla nostra lancia, quella che aveva gridato fino a svenire. Ora era seduta accanto ai bagni, con lo sguardo perso e completamente nuda. L’équipe medica provava a farla vestire, ma lei si spogliava allo stesso modo in cui prima si liberava del giubbotto. Non sentiva ragioni, era fuori di sé. Accanto a lei un’altra donna aveva lo sguardo di una persona sull’orlo di una crisi nervosa.

Tra le donne ce n’erano tre che stavano in piedi. Piangevano e osservavano la carretta del mare, che restava a circa duecento metri dall’imbarcazione di soccorso, ancora con i cadaveri a bordo. La dottoressa mi si è avvicinata per dirmi che, tra le vittime, c’erano alcuni loro parenti.

Donne soccorse nel mar Mediterraneo dalla nave dell’ong Open Arms, 25 luglio 2017. (Santi Palacios)

Era giunto il momento di tornare sul gommone e recuperare i corpi. Ci sono molti motivi per farlo: la dignità, il rispetto dei familiari e la necessità di tenere un registro dei decessi. La cifra finale è stata di 13 cadaveri: otto donne (due delle quali incinte) e cinque uomini. Quelli caduti in acqua nelle ore precedenti al salvataggio non compariranno in alcun registro. Non si potrà sapere quanti erano: alcuni dicevano due, altri tre, oppure cinque.

La donna più corpulenta è la madre dei bambini fatti salire sulla lancia: Gift, Divine, Domino e Destiny, provenienti dalla Nigeria. John, un giovane di vent’anni, anche lui nigeriano, che aveva conosciuto la donna e i suoi bambini in Libia, ci ha detto che lei voleva entrare in Europa, tra le altre cose, per operarsi a un’ernia allo stomaco.

Recuperare i cadaveri è stato molto complicato. Bisognava salire sullo scafo, con il rischio di bruciarsi i piedi e le caviglie a causa della miscela di gasolio e acqua salata, sopportare un odore che entrava dritto nei polmoni, mantenendosi in equilibrio nonostante le onde mentre ci si muoveva sulla barca per avvolgere i cadaveri nei teli, trasportando ogni cadavere dallo scafo alla lancia, e da lì alla nave madre. Le operazioni sono durate alcune ore.

Per trasportare i cadaveri dalla lancia all’Open Arms, occorreva far scendere una barella e disporvi ogni corpo per evitare che cadesse in acqua. Dall’altra parte, i sopravvissuti osservavano sfiniti il modo in cui i corpi, in alcuni casi dei loro stessi familiari, venivano recuperati, mentre a prua la dottoressa esaminava ogni singolo corpo. Tutti davano in qualche modo il loro contributo: in una situazione simile serve il contributo di tutta la ciurma.

I coordinatori dell’operazione, da Roma, hanno deciso che avremmo passato la notte con i sopravvissuti e i cadaveri a bordo, e che il mattino seguente li avremmo trasportati sull’imbarcazione dell’ong Save the children, che li avrebbe portati in Italia.

Nel frattempo avevo visto che una foto che avevo pubblicato sui social network era diventata virale. Riceveva molti messaggi indignati ma anche, purtroppo, messaggi di persone che dicevano di non capire perché sono effettuati soccorsi così vicino alla Libia, per barche che si trovano in acque internazionali, o altri che accusavano le ong di traffico di persone.

Il soccorso è un’operazione d’emergenza che non ha nulla a che vedere con il problema politico di fondo. L’interpretazione di questo problema, indipendentemente dall’ideologia, non dovrebbe mai influenzare il giudizio su un’azione, tanto legittima quanto necessaria, quale il salvataggio.

Poche ore dopo, all’alba, le persone erano ancora distrutte, però si capiva che il peggio era passato. La ciurma era stanca, ma continuava a lavorare e cominciava a preparare il trasferimento verso l’imbarcazione di Save the children.

La donna che era in stato di shock sulla lancia rapida, e della quale non ho mai saputo il nome, era molto dolorante e non riusciva a muoversi. Alcuni bambini la aiutavano ad andare in bagno. Molto donne si occupavano dei quattro bambini che avevano perso la loro madre in mare.

Una delle donne soccorse viene aiutata ad alzarsi, 25 luglio 2017. (Santi Palacios)

I sopravvissuti e i corpi senza vita sono stati trasportati sull’imbarcazione di Save the children. Il processo è durato alcune ore e si è concluso al calar del sole: un totale di 168 sopravvissuti e 13 cadaveri sono stati avviati verso l’Italia.

Il personale di bordo dell’Open Arms era sfinito. Aveva portato a termine un’operazione di salvataggio di grandi dimensioni e molto complessa, dopo una settimana di navigazione e altre quattro operazioni di soccorso nei giorni precedenti. Non restava che lavarsi, ritirarsi e aspettare istruzioni per il proseguimento della missione.

In quel momento mi sono reso conto che la mia foto era stata censurata da Facebook e il mio account bloccato. Il motivo è che non rispettava la politica sulla “nudità”. Poche ore dopo l’immagine è riapparsa, stavolta con un messaggio che avvertiva che il suo contenuto avrebbe potuto urtare la sensibilità di alcuni.

Per qualcuno era una foto di nudo. Per altri il problema era che esistessero organizzazioni che soccorrono le persone in mare. Io ho visto solo 168 persone in pericolo di morte, alcune torturate, altre stuprate, e tutte in preda al panico: ammassate in un gommone sgonfio e circondate da cadaveri.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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