A giudicare dai titoli sui giornali e dai sondaggi, la consapevolezza della crisi climatica non è mai stata così diffusa. Anche se i social network sono terreno fertile per le tecniche di propaganda, le campagne diffamatorie, gli impostori e le teorie del complotto, le prove sempre più visibili dei cambiamenti climatici e movimenti come Fridays for future ed Extinction rebellion stanno convincendo un numero sempre maggiore di persone. Il negazionismo climatico – la moltitudine di strategie adottate dall’industria dei combustibili fossili e dai suoi alleati per sminuire la minaccia del riscaldamento globale e sollevare dubbi sull’esistenza della crisi – appare in grande difficoltà.
Eppure i negazionisti non sono spariti. Semplicemente hanno adottato un nuovo linguaggio e nuove tattiche. La macchina del negazionismo ha cambiato strategia comunicativa e ha scelto una narrativa “noi contro di loro”, non più tra negazionisti e attivisti, ma tra “realisti” e “allarmisti”.
La manovra, piuttosto astuta, serve a neutralizzare un allarme scientifico assolutamente legittimo. Associando la propria posizione al termine “realista”, infatti, queste persone ripropongono l’antico caposaldo del negazionismo climatico: chi mette in guardia sulle conseguenze catastrofiche dell’emergenza climatica è scollegato dalla realtà ed è soltanto un “allarmista” che vuole spingerci verso “il panico” anziché “riflettere”, per usare le parole di Naomi Seibt, 19 anni, tedesca, youtuber e famosa negazionista. “È sempre più evidente che gli allarmisti climatici – quelli convinti che il cambiamento climatico stia distruggendo la terra – siano ormai disperati”, scriveva a gennaio l’Heartland institute, organizzazione libertaria e negazionista per cui ha lavorato Seibt. Questo genere di affermazioni descrive la scienza del clima come emotiva e i negazionisti come delle persone razionali e concrete.
Sui social network
Analizzando lo sviluppo di questa nuova strategia comunicativa sui social network, di recente abbiamo creato un archivio di tweet in inglese che contengono una serie di parole chiave legate ai termini “allarmismo” e “realismo” climatico, pubblicati a partire dal 2006, anno del lancio di Twitter. Fino al 2016 l’uso di entrambi i termini era piuttosto raro (in media meno di duecento tweet all’anno), ma da allora si è verificato un aumento costante. Nel 2019 i termini “realismo” e “allarmismo” climatico erano ormai d’uso comune. Tra gennaio 2016 e marzo 2020 la presenza dei due termini è cresciuta del novecento per cento. L’aumento più drastico si è verificato tra il 2018 e il 2019.
Naturalmente il nostro studio non usa una metodologia puramente statistica, poiché non comprende l’analisi del rapporto tra queste tendenze e l’evoluzione generale di Twitter, a cominciare dall’aumento di traffico sulla piattaforma. L’obiettivo della ricerca era piuttosto quello di capire in che modo i tweet, abbinati alla svolta retorica operata da importanti istituzioni e individui di spicco, rispecchiassero lo sviluppo della narrativa negazionista e il suo utilizzo in reazione a eventi specifici.
L’aumento registrato tra il 2018 e il 2019, per esempio, corrisponde a un’altra tendenza: il 2019, infatti, ha segnato un punto di svolta per l’attivismo climatico e la consapevolezza dell’opinione pubblica, al punto da essere definito in più di un’occasione “l’anno in cui il mondo si è risvegliato con la necessità di fare immediatamente qualcosa di forte per il cambiamento climatico”. I picchi nell’utilizzo dei termini “allarmismo” e “realismo” corrispondevano spesso ai discorsi dell’attivista svedese Greta Thunberg. L’apice è stato raggiunto nel giorno del famoso discorso pronunciato da Thunberg durante il vertice climatico alle Nazioni Unite. Questa tendenza conferma un fenomeno già rilevato: la macchina del negazionismo si attiva a pieni giri quando l’azione per contrastare la crisi climatica diventa una priorità politica, esattamente come la campagna di disinformazione dell’industria del tabacco ha raggiunto il suo picco nel momento in cui i governi hanno introdotto nuovi limiti al fumo.
In passato il termine “allarmista” è stato usato dai negazionisti soprattutto per screditare i climatologi, ma oggi la dicotomia allarmismo/realismo sembra essere costruita specificamente su Thunberg, considerata dai negazionisti il prototipo dell’allarmista.
Campagne di disinformazione
Mentre in alcuni casi l’uso del termine “allarmista” si è sviluppato in maniera non intenzionale, in altri è assolutamente deliberato. L’anno scorso l’Heartland institute ha reclutato Naomi Seibt per trasformarla in una sorta di anti-Thunberg. Seibt ha denunciato l’“allarmismo” climatico dell’attivista svedese e degli scienziati, contrapponendolo al “realismo” climatico di quelli che (secondo l’Heartland institute e Seibt) mantengono una posizione scettica e ancorata alla realtà. A marzo il famoso sito negazionista Friends of Science ha pubblicato un video con un titolo che riassume perfettamente la strategia comunicativa dei negazionisti: “Greta o Naomi: allarmismo climatico contro realismo climatico”.
In un contesto in cui si moltiplicano le prove del fatto che il riscaldamento globale è causato dagli esseri umani e dell’alterazione del clima all’interno del nostro ecosistema, opporsi alle leggi contro le emissioni è sempre più difficile anche per i ricchi negazionisti. Davanti a temperature da record, allo scioglimento delle calotte polari, all’innalzamento del livello del mare e alla proliferazione di incendi, inondazioni ed eventi climatici estremi, come si continuano a convincere le persone che la crisi climatica non è un’emergenza e che non è provocata dagli esseri umani (nello specifico dall’industria dei combustibili fossili)?
I risultati delle nostre analisi indicano che il cinquanta-sessanta per cento degli utenti che twittano più spesso su “realismo” e “allarmismo” climatico segue il profilo Twitter dell’Heartland institute. Il think tank utilizza spesso i due termini, sia su Twitter sia sul proprio sito, e alla fine del 2019 ha addirittura lanciato la pagina climaterealism.com.
L’Heartland institute ha ricevuto finanziamenti consistenti dall’industria dei combustibili fossili. Gran parte derivano dal Donors capital fund e dall’organizzazione affiliata Donors trust, entrambi descritti come “il bancomat nascosto” del movimento conservatore per la loro capacità di erogare fondi nascondendo l’identità dei finanziatori. Lo studio ExxonSecrets, condotto da Greenpeace, indica che l’Heartland institute ha ricevuto 676.500 dollari da ExxonMobil a partire dal 1998, e almeno 55mila dollari da Koch industries. Il totale, oggi, potrebbe essere più elevato. Un rapporto del 2019 di Influence map indica che negli anni successivi all’accordo di Parigi “le cinque maggiori aziende del settore del petrolio e del gas (ExxonMobil, Royal dutch shell, chevron, BP e Total) hanno investito più di un miliardo di dollari di utili e riserve non distribuiti per una campagna di disinformazione sul clima”.
Anche se lo scorso aprile Seibt ha deciso di non rinnovare il contratto con l’Heartland institute, dopo aver rischiato una sanzione da un’autorità televisiva regionale, la fase youtuber dell’Heartland è molto utile per comprendere la macchina del negazionismo climatico. Seibt offriva una forte presenza online per contrastare Thunberg, creando la percezione che fosse in corso un dibattito sul cambiamento climatico, la tempistica e la portata del suo impatto. Trasformare il cambiamento climatico in una questione politica anziché scientifica permette alla macchina negazionista – l’industria dei combustibili fossili, i think tank conservatori, i politici ultraconservatori e le loro piattaforme di comunicazione – di sfruttare la polarizzazione pubblica e continuare a raccontare “la propria versione”.
Ragioni economiche
Inquadrare il dibattito in un confronto tra “realismo” e “allarmismo” significa sfruttare le pulsioni emotive, dalla paura di un pianeta alterato alla sensazione di perdere il controllo del proprio futuro. Chi non vorrebbe sentirsi dire che lo scenario peggiore – di cui fanno parte la scomparsa di città amate, la crisi della biodiversità e dell’agricoltura, i morti per fame e i fenomeni meteorologici estremi – è soltanto frutto dell’isteria? In realtà le campagne dei negazionisti sono puramente economiche. Riguardano il potere e il denaro. Seminando il dubbio e la disinformazione, infatti, l’industria dei combustibili fossili può rinviare l’introduzione di misure di controllo delle emissioni e continuare indisturbata a generare profitti per migliaia di miliardi di dollari.
Le diverse tattiche negazioniste, applicate dalla crisi climatica al vaccino contro il covid-19, mostrano le stesse dinamiche di base. Quando un tema affonda le radici nella scienza, i negazionisti lo trasformano in un argomento politico. Gli esperti che hanno sottolineato i pericoli del virus e l’importanza di seguire la scienza sono stati bollati come “allarmisti”. Chi temeva per la propria posizione o i propri guadagni – tra cui il presidente degli Stati Uniti – inizialmente ha negato l’esistenza del problema e sminuito la minaccia. Con conseguenze gravissime per la popolazione.
È precisamente questo l’obiettivo del negazionismo: alterare la realtà, come fa uno specchio deformante. Chiamare “allarmisti” gli attivisti non è meno grave del negazionismo assoluto. Accusare chi è preoccupato per le possibili conseguenze catastrofiche di essere “allarmista” significa negare uno dei princìpi fondamentali della scienza del clima, ovvero il fatto che gli studiosi possono prevedere una serie di scenari ma non sanno quale si concretizzerà. Questo, però, non significa assolutamente che non abbiano idea di cosa accadrà. Oggi, mentre studi su studi si moltiplicano e indicano che il riscaldamento globale è ancora più rapido del previsto, i motivi per essere “allarmisti” non fanno che aumentare.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista statunitense The New Republic.
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