Zoe Barnes vuole arrivare, in fretta. Ma quando la conosciamo, nella prima puntata della serie tv americana House of cards (2013), viaggia su una nave che affonda, anzi su una barchetta di carta che tiene molto ad affondare con dignità. Lavora per il Washington Herald, un immaginario quotidiano della capitale americana chiaramente modellato sul Washington Post, il giornale che indagò sul caso Watergate e portò alle dimissioni il presidente Nixon, nel 1974. Da quei tempi gloriosi sono trascorsi quarant’anni, Zoe ne dimostra poco più della metà (l’attrice che la interpreta, Kate Mara, è nata nel 1983) e il passato è una scatola di ricordi da sgombrare.
Zoe vuole andare online, scrivere in prima persona, conquistare il pubblico. Spiega a Lucas – il suo capo, il primo anello sopra di lei nella catena editoriale – i nuovi tempi digitali, il futuro che è già presente fuori dalle grigie mura del Washington Herald. Immagina di seguire i potenti fino in bagno e svelarne i segreti ma Lucas riduce tutto a “una rubrica di gossip” e nomina con orrore il sito scandalistico Tmz.
Zoe ribatte “Sai quante persone guardano Tmz?”, e di fronte al nobile disinteresse di Lucas, costretto dalla sceneggiatura al ruolo di beautiful loser “fermo al ventesimo secolo”, conclude amaramente: “È per questo che il giornalismo di carta sta morendo”. Nello sguardo duro e nel volto affilato leggiamo la sua ribellione a questo destino di sconfitta, Zoe non ci sta.
Si procura un incontro con il deputato Frank Underwood e ottiene clamorose esclusive prestandosi a fare da sponda nei media alle sue spregiudicate manovre politiche. Nel fotogramma qui sotto la vediamo scappare dalla redazione per incontrare Frank che le ha fissato un improvviso appuntamento. La direzione della fotografia rende il tramonto della carta stampata con tinte grigie e marroni e possiamo solo immaginare il bianco un tempo immacolato del Washington Herald. Niente splende più, pure l’arredamento e la disposizione degli uffici denunciano la vecchiaia, la corrosione che avanza. Alla sinistra dell’inquadratura Zoe incrocia un collega, maschio bianco non giovane e non magro, entrato forse al giornale al tempo del Watergate, sorpassato e uncool come quell’incongruo apparecchio in primo piano che butta fuori carta, nel 2013. Siamo all’autunno del giornalismo che non passerà l’inverno.
La sede del Washington Post nel film Tutti gli uomini del presidente (1976) mostrava invece la robustezza e l’energia del giornalismo nell’epoca del suo massimo sviluppo industriale. Bob Woodward e Carl Bernstein, interpretati da Robert Redford e Dustin Hoffman, sono gli eroi della storia, i due reporter giovani e tenacissimi che indagano sul Watergate. Buona parte del film li mostra al lavoro in un’enorme redazione che occupa un grande piano aperto, illuminato da efficienti neon, con pareti e piloni di sostegno bianchissimi e mobili dai colori caldi anni settanta, a marcare un ambiente vivo e pulsante. I due reporter sanno di fare parte di una grande fabbrica delle notizie con decine anzi centinaia di persone impegnate in forme perfettamente definite di collaborazione. Definite sono pure le tensioni: anche Woodward e Bernstein sono giovani e vogliono arrivare in fretta e cercano di convincere gli anelli superiori della catena a fidarsi di loro. Come Zoe Barnes, ma in un contesto tutto diverso.
Il controllo editoriale molto esigente spinge infatti i due a scavare più a fondo e li sprona a giustificare meglio ogni loro affermazione: la struttura solida e articolata è una risorsa, non un impedimento. E quando diventa chiaro che la loro storia su Nixon farà grande rumore, la direzione li sostiene, sfidando il potere in difesa della democrazia. Il Washington Post diventa nei fatti e ancora di più nell’immaginario creato dalla memoria giornalistica, dal libro di Woodward e Bernstein e dal film di Alan Pakula (girato quasi a ridosso degli eventi), il “giornale che depone presidenti”, il più grande mito del quarto potere.
Woodward e Bernstein sono i talenti eccezionali, ma ciò che li rende tali possibile è l’intera organizzazione del Washington Post. In uno splendido piano sequenza Pakula segue il direttore Ben Bradlee (Jason Robards) mentre esce dal suo ufficio, attraversa ambienti molto curati e pieni di persone indaffarate e quindi raggiunge i suoi reporter al lavoro. Nell’immagine sopra lo vediamo esaminare con severità un primo articolo sul Watergate, già visto dal redattore Harry M. Rosenfeld (Jack Warden), appoggiato al tavolo tra lo speranzoso Redford e il preoccupato Hoffman. Bradlee tira fuori la penna, attenua affermazioni, taglia parti e andandosene ammonisce: “Procuratevi informazioni più solide la prossima volta”. L’irruento Bernstein commenta questo giudizio con livore, ma Woodward subito riconosce che non avevano ancora materiale abbastanza robusto.
In un’altra scena entriamo invece in una riunione di redazione, tanto rigorosa nella sostanza quanto informale nei modi. Intorno al tavolo, a prendere le decisioni, solo uomini bianchi di età matura.
Quarant’anni dopo in House of cards quel modello architettonico e organizzativo viene rappresentato come fatiscente: il Washington Herald è una barchetta di carta che sta per essere spazzata via. E viene messo in esplicito contrasto con Slugline, un’agile startup di giornalismo digitale dove Zoe Barnes si trasferisce, dopo aver ottenuto i primi scoop grazie al rapporto con Frank Underwood ed essersi quindi scontrata con la direzione dell’Herald. Zoe ora va persino in tv, ce l’ha fatta. E le si aprono pure le porte dei new media, dell’informazione online che “rompe tutte le regole” (l’immaginario Slugline è una sorta di versione ipervitaminazzata di Politico, impresa giornalistica di enorme successo, fondata nel 2007 da due giornalisti già al Washington Post.)
Zoe incontra il direttore di Slugline, Carly Heath, giovane e autorevole donna nera, e in una scena di walk and talk che deve molto al modello fissato da Aaron Sorkin con The West Wing, attraversano la “redazione”. Una stanza affollata ospita ventenni seduti sui divanetti o appoggiati al tavolo da ping pong, col portatile e lo smarphone fanno tutto: non solo scrivono, telefonano, compongono foto, ma stampano e distribuiscono ovvero cliccano Pubblica sul blog e twittano. L’organizzazione pesante del giornalismo cartaceo non è più adatta ai tempi digitali, i giovani magri e l’ambiente molto cool sono, esattamente come accadeva per i professionisti tradizionali di Tutti gli uomini del presidente, la rappresentazione idealizzata del mestiere, di un lavoro veloce che oggi va su internet e risponde ai social media.
In una scena precedente Zoe, divenuta amante di Frank Underwood, spiegava al deputato, mentre dal letto controllava l’iPhone, che a Slugline sono tutti “free agent, e scrivono quello che vogliono, in qualsiasi luogo si trovino. La maggior parte scrive con lo smartphone”. La startup è quindi pienamente “postpostindustriale”: può fallire o avere successo o cambiare radicalmente in un attimo, tre mesi sono una vita, e il singolo device Apple, continuamente ripreso in House of cards per accordi di product placement (ben presente, come vedremo più avanti, pure in The newsroom), è il sostituto e il fantasma della fabbrica delle notizie.
In Tutti gli uomini del presidente Ben Bradlee può mettere i piedi sul tavolo, anzi deve mettere i piedi sul tavolo, perché è il direttore e tocca a lui l’onore di mostrare nel modo più clamoroso l’indipendenza dalle convenzioni del giornalismo proprio mentre la sua squadra gli si raccoglie rispettosa intorno. A Slugline ognuno sembra andare per i fatti suoi, sdraiato, seduto, in piedi, sono tutti “soggettivi” e “neoliberali” per forza. Esiste solo la prima persona, non il noi.
Intanto Carly Heath spiega a Zoe che quello è il posto giusto per lei. Arrivate in fondo alla “redazione”, si fermano e si voltano e in un bel campo lungo noi spettatori contempliamo l’intero ambiente: divani, pareti di legno dipinte con enfatici pugni ribelli, neon in eleganti strutture a cassettoni, tavoli da ping pong, magliette a maniche corte e jeans, bancali di legno riadattati a scrivania (per un giovane seduto comodamente su una poltrona a sacco che noi italiani, causa Giandomenico Fracchia in visita al direttore, continuiamo a non poter prendere sul serio).
E tanti tanti tantissimi Mac, con almeno un paio di “mele” voltate sempre a favore di telecamera. E ancora, come scivoloso correlativo oggettivo della rivoluzione e della nuova generazione di ribelli, la regia ci offre un giovane hipster con occhiali e barbetta che pare avere come unico compito quello di muoversi a zig-zag su una sedia dotata di rotelline (lo trovate in secondo piano quasi al centro dell’inquadratura nei due fotogrammi analizzati).
Tutti gli uomini del presidente si conclude con Woodward e Bernstein in redazione e una macchina da scrivere che batte la notizia delle dimissioni di Nixon. Se qui potessimo violare il principio del “no spoiler”, la sacra regola degli appassionati di serie tv, mostreremmo come i destini di Zoe Barnes e di Frank Underwood, uomo disposto a qualsiasi crimine pur di raggiungere il potere, siano distanti dal lieto e giusto fine democratico. Ma possiamo almeno notare, in generale, che noi spettatori delle serie tv contemporanee – dai Sopranos a Breaking bad e oltre – accettiamo l‘“immoralità” senza farci troppi problemi, anzi spesso ci scopriamo ad amare i sociopatici (Why we love sociopaths: a guide to late capitalist television).
Chi resiste nella moralità e nel giornalismo tradizionali è Will McAvoy, interpretato da Jeff Daniels, in The newsroom (2013). Da una posizione nella scala sociale e giornalistica esattamente opposta a quella iniziale di Zoe Barnes: è anchorman noto a tutta la nazione e autorizzato a parlare in prima persona alla televisione. McAvoy rifiuta la decadenza, non solo della carta ma dell’informazione tutta, contro il gossip da Tmz e l’infotainment (informazione+intrattenimento).
Il tono generale di The newsroom e dei frequenti commenti, in onda e soprattutto fuori onda, di McAvoy è quello della predicazione che ammonisce e consola, con una viva nostalgia per una favolosa età dell’oro della tv americana, per un tempo mitico nel quale il mercato e il giornalismo trovavano una conciliazione, il pubblico veniva informato correttamente e quindi messo in condizione di partecipare in forma matura alla vita pubblica. Ma la nostalgia è anche del futuro perché, con ottimismo da pioniere e contro tutte le difficoltà, McAvoy e la sua giovane redazione credono di poter fare e anzi fanno un giornalismo migliore, puntata dopo puntata.
Will McAvoy rappresenta ancora una volta l’americano onesto tra James Stewart, il “Signor Smith che va a Washington” nel film di Frank Capra, Walter Cronkite mentre parla alla nazione dello stallo nella guerra del Vietnam dal suo telegiornale e Ben Bradlee alla direzione del Post.
Le prime due puntate mostrano il conduttore in crisi professionale e personale, mentre nella terza arriva il risveglio dalla routine sottogiornalistica in cui era invischiato. McAvoy si ribella, non consente più che il suo ruolo di anchorman possa essere confuso con quello dei “produttori di Jersey Shore” (un reality divenuto esempio supremo della spazzatura televisiva).
E da quel momento in The newsroom accade una cosa anomala, che crea nello spettatore uno spiazzamento. Nel seguire alcuni grandi fatti realmente accaduti degli ultimi anni (dalla falla nella piattaforma petrolifera Deepwater Horizon della British Petroleum a Occupy Wall street), il tg di McAvoy si comporta come nel mondo reale non si sono comportati e non si comportano i grandi network americani: non commette i loro errori, e quando sbaglia è esemplare nella correzione. Lo spettatore della serie si trova quindi a vedere il tg che potrebbe seguire se oggi l’informazione fosse migliore; migliore ovviamente secondo l’idea del creatore della serie, Aaron Sorkin: più sobria, accurata, approfondita e liberal.
Per conciliarsi con l’immagine ideale del notiziario ben fatto, le storie raccontate reinventano il passato appena trascorso mettendo la redazione di McAvoy al centro degli eventi e al tempo stesso raddrizzando il mondo, almeno quello dell’informazione, in una sorta di revisionismo dell’immaginario. La storia si ripete, ma qui è la farsa dell’infotainment che cede il passo alla “tragedia”, alla serietà del giornalismo.
La redazione viola persino la regola della freschezza delle news, ritorna cioè indietro nel tempo per riprendere notizie mancate o alle quali non aveva prestato abbastanza attenzione. Nell’immagine qui sotto vediamo quindi la producer e “coscienza critica” di McAvoy, MacKenzie McHale (interpretata da Emily Mortimer), in piedi di fronte alla lavagnetta coi compiti da fare e la giovane redazione esemplarmente multietnica e rispettosa della parità di genere - si intravedono le teste di due donne, e altre due sono al tavolo, dove opposto a MacKenzie siede e coordina McAvoy. La scena rappresenta insomma la didattica mise en abyme della stessa idea fondante di The newsroom: Riformulare Correttamente l’Informazione.
Zoe Barnes vive in un presente finzionale che con l’ascesa di Frank Underwood diventa sempre più distopico, per l’informazione e la politica; e la distopia agli occhi dello spettatore seriale amante dei complotti e della paranoia apparirà mirabile immagine del vero.
Will McAvoy vive in un passato prossimo dove il presente difettoso viene corretto, almeno nell’informazione, e si offre quindi allo spettatore seriale in un replay consolatorio.
Woodward e Bernstein vivono invece nell’attimo perfetto cinematografico, nell’eterno presente del mito, dove il giornalismo è il più saldo presidio della democrazia. E lo spettatore, rivedendolo per l’ennesima volta, cede alla nostalgia del “classico irripetibile”, ma già pensa a quale altra bella serie di intrighi potrebbe cominciare a seguire.
Alessandro Gazoia (Jumpinshark) scrive di giornalismo, media, informatica su minimaetmoralia.it e sul suo blog; ha pubblicato per minimum fax l’ebook Il web e l’arte della manutenzione della notizia (2013) e Come finisce il libro (2014).
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