Alessandro Leogrande è morto il 26 novembre 2017 a Roma. Nato a Taranto nel 1977, ha collaborato con Radio3, Pagina99 e il Corriere del Mezzogiorno. È stato vicedirettore della rivista Lo straniero. Tra i suoi libri, Uomini e caporali e La frontiera. Per Internazionale ha scritto reportage, commenti e inchieste.
Il dibattito in Italia sulla riforma della cittadinanza da votare prima che finisca l’attuale legislatura è la cartina al tornasole di resistenze culturali (e politiche) molto più radicate e profonde.
Conviene dirlo subito, con parole chiare: l’Italia è un paese molto più complicato, stratificato, maturo di come spesso è possibile percepirlo attraverso la grande vulgata mediatica che vorrebbe raccontarlo. Non necessariamente migliore, semplicemente più complesso. Ed è proprio su questo iato che dobbiamo interrogarci.
Secondo l’ultimo Dossier statistico immigrazione, gli stranieri nel nostro paese sono circa cinque milioni e mezzo (a cui vanno aggiunti un milione di cittadini di origine straniera che hanno già acquisito la cittadinanza italiana). Provengono in maggioranza da Romania, Albania, Marocco, Cina, Ucraina. Costituiscono più o meno l’8 per cento della popolazione residente nella penisola, ma in una regione come l’Emilia Romagna arrivano al 12 per cento.
Una classe dirigente chiusa
Nel 1989, quando il muro di Berlino cadeva e il bracciante sudafricano Jerry Masslo veniva ucciso a Castel Volturno, facendo scoprire all’Italia lo sfruttamento nei campi e il razzismo, erano ancora poche centinaia di migliaia di persone. È evidente che nell’arco di un quarto di secolo è avvenuta una profonda mutazione del paese. Oggi abitiamo in una società molto più plurale.
Eppure alla crescita della popolazione di origine straniera, alla creazione di una nuova classe di operai e di braccianti stranieri nel nostro paese, all’affermarsi di un ceto di piccoli imprenditori e commercianti, all’emergere delle seconde e delle terze generazioni residenti, non fanno ancora seguito adeguate forme di rappresentanza, che vadano al di là di tutte quelle espressioni puramente simboliche come i consiglieri comunali aggiunti (e quindi privi di voto).
Lì dov’è più grave lo sfruttamento, più cosmopolita è la composizione della nuova classe operaia
La classe dirigente italiana (intendendo per classe dirigente non solo la classe politica, ma anche i vertici delle istituzioni e dei ministeri, i giornali, le università, le tv, i sindacati, le grandi aziende, le fondazioni, gli enti pubblici e privati…) è ancora bianca, di madrelingua italiana. Salvo rare eccezioni: la più nota – e allo stesso tempo isolata – è stata la ministra dell’integrazione del governo Letta, Cécile Kyenge.
Da dove nasce questa differenza profonda con il resto dell’Europa, con la Francia, la Germania, il Regno Unito, i paesi del nord Europa? Cosa fa dell’Italia un paese ancora così impermeabile all’apertura verso la società plurale?
Curiosamente, chi parla di “casta” non sottolinea mai questo aspetto – realmente castale – del potere e del sottopotere nostrani. Era molto più cosmopolita ed eterogenea la composizione delle camicie rosse di Garibaldi durante la spedizione dei mille che non quella di qualsiasi consiglio comunale di oggi, dalle Alpi alla Sicilia.
Contraddizioni
Eppure la contraddizione, a volte, emerge. Basta collegare tra loro eventi solo apparentemente distanti. Il movimento che è sceso in piazza in molte città italiane per chiedere una nuova legge sulla cittadinanza che superi gli steccati dello ius sanguinis è fatto soprattutto da ragazzi e ragazze delle cosiddette seconde generazioni. Dai figli, cioè, cresciuti e spesso anche nati in Italia, di chi ha fatto per primo il grande viaggio verso l’Europa. E che sono “anche” di madrelingua italiana. Quali forme di rappresentanza hanno? Quali vengono loro offerte?
Un’altra contraddizione evidente emerge nel mondo del lavoro. Non solo in quello nelle fabbriche, ma anche in quello nelle campagne o nei poli della logistica. Laddove più gravi e profonde sono le forme di sfruttamento, più cosmopolita è la composizione di quella che – a tutti gli effetti – è una nuova classe operaia. È così nei campi dove si raccolgono le arance o i pomodori. È così per i facchini che lavorano in subappalto per le grandi multinazionali di spedizioni pacchi.
La vicenda di Abd Elsalam – il facchino egiziano di 53 anni, travolto un anno fa da un camion durante un blocco operaio davanti allo stabilimento della Gls di Piacenza – lo rivela appieno. Oltre agli eventi che hanno portato alla sua morte, e al fatto che presumibilmente il camionista che lo ha investito è stato esortato ad aggirare il picchetto, a stupire sono le condizioni in cui lavorava. Il contesto. In quell’azienda, su 140 dipendenti, non c’era un solo italiano. Erano tutti egiziani, algerini, tunisini, albanesi, macedoni… Pertanto, la sera in cui Elsalam è rimasto ucciso, non c’era neanche un solo italiano a prendere parte al blocco contro la Gls per il mancato rispetto di un accordo sindacale.
Come si era organizzata la loro lotta? In che modo si stanno organizzando vertenze simili in giro per l’Italia?
Una spia del futuro
La lotta in questi contesti è più aspra che altrove, ed è lì che sta emergendo una generazione nuova di delegati sindacali stranieri: sia nei sindacati confederali, sia – e spesso soprattutto – in quelli di base. Cominciano a essere loro la prima forma di rappresentanza di un’Italia diversa. Ma da qui a una rappresentanza più vasta ancora ce ne vuole. Finora, non si è ancora superata la dimensione locale o quella dei sindacati di categoria.
Da sempre le trasformazioni del lavoro, della composizione del mondo dei lavoratori e della loro rappresentanza, sono la prima spia per capire cosa si agita nel profondo della società. E come, intorno a quelle trasformazioni, l’organizzazione sociale può essere modificata. Del resto è proprio lì, nel mondo del lavoro, tanto quanto sui banchi di scuola, che si sta generando il vero incontro tra “vecchi” e “nuovi” italiani. Accanto all’incontro, ovviamente, non mancano gli attriti. Ed è proprio per gestirli che bisogna modificare le regole e le forme della rappresentanza.
Siamo a metà del guado. È difficile dire quando la contraddizione tra paese reale e paese rappresentato raggiungerà il punto di rottura, ma sicuramente – se non sarà sciolta – si acuirà fino a esigere una trasformazione degli assetti più asfittici della società italiana. Non sarà un percorso facile. Sarà costantemente interrotto e osteggiato dall’Italia castale, da quel cuore oscuro che teme, sommando tra loro paure diverse, che il monolite possa essere scalfito. In fondo, chi al nord come al sud organizza barricate contro l’accoglienza dei profughi è a questa idea di contaminazione che si oppone, scaricando sul rifiuto dell’accoglienza nella propria città o nel proprio quartiere un rigetto molto più profondo.
Tuttavia, se sostenuto, questo percorso potrà aprire le porte a uno scenario diverso. Poiché nell’ultimo decennio l’Italia, proprio mentre diventava un paese più plurale, è diventato anche un paese molto più rigido nei processi di mobilità sociale, è giunta l’ora di far saltare il tetto di cristallo. La legge sulla cittadinanza è un tassello necessario per accelerare questo percorso. Per gli altri tasselli del mosaico, serve un lavoro politico e culturale molto più ampio di quanto forse in questo momento riusciamo a immaginare.
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