Che facciamo, ordiniamo un cinese a domicilio? Oppure fish and chips? O andiamo in un ristorante italiano? Vi va la pizza? È il 1983 e si tratta di un lusso eccezionale dato che, come la maggior parte delle famiglie piccolo borghesi in Gran Bretagna, andiamo raramente a cena fuori. Ma ci siamo appena trasferiti a Glasgow e, visto che non abbiamo ancora né il forno né il frigo, per mangiare siamo obbligati a uscire.
Giriamo per le umide strade invernali in una Morris Marina verde metallizzato fino a quando non vediamo un’insegna illuminata con scritto “Romy’s” in un corsivo stravagante. Sotto c’è scritto “PIZZA” in lettere maiuscole. Tornando a casa, nella macchina si diffonde l’odore di unto, di calore, di giornali e di aceto, il tutto misto all’aroma vinilico dei sedili beige. Il paesaggio alieno di una città sconosciuta s’intravede dietro i vetri appannati. Non m’interessa affatto. Ho fame e sono emozionato.
Quando arriviamo mi siedo a gambe incrociate accanto a mio fratello sul pavimento della nostra nuova casa, aprendo i fogli di carta finché non compare un disco poggiato su una montagna di patatine fritte. Anche la pizza è stata fritta, e sembra un’enorme moneta dorata. Questo è cibo italiano. Memorizzo questa informazione nel mio archivio mentale e prendo nota del fatto che, quando stringo la pasta spugnosa tra il pollice e l’indice, esce un bel po’ di olio. Una ventina d’anni dopo, sono seduto con la mia amica italiana Alicia nell’Antica Trattoria della Pesa, un ristorante milanese.
All’arrivo di ogni portata lei mi spiega di cosa si tratta. Il cappone è un gallo, castrato quando è ancora giovane così la carne ha un sapore più delicato. La mostarda è frutta candita piccante, dolce e salata allo stesso tempo. Il risotto al salto è secco e, peculiarità del nord, viene riscaldato dal giorno precedente. La parola infinocchiare deriva dal finocchio, ma il suo significato più comune – approfittarsi di qualcuno, imbrogliarlo – risale ai tempi in cui all’inizio del pasto si serviva del finocchio prima di far assaggiare il vino; le sue caratteristiche anestetizzanti nascondevano il sapore del vino cattivo.
Scopro che le lingue di gatto sono delicati biscotti al burro che si sciolgono in bocca. Ogni spiegazione è una novità interessante che stimola le mie ghiandole salivari e l’immaginazione. Ma mi lascia con la sensazione che la mia conoscenza della cucina italiana non abbia poi fatto molti progressi dai tempi in cui ho scoperto la pizza fritta.
Internazionale, numero 629, 16 febbraio 2006
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