Sto passeggiando per la strada araba di Singapore. Tutte le saracinesche sono abbassate e mi rendo conto che non so nemmeno che giorno sia. Festeggio il mio rintontimento comprando una noce di cocco tailandese vicino alla stazione Bugis.

Con un deciso colpo di machete, l’uomo fa lo scalpo alla noce fulva e ci infila dentro una cannuccia. Sorseggio il latte dolce e rinfrescante mentre cammino attraverso una densa umidità. Un uomo con delle vecchie ciabatte ai piedi lancia migliaia di minuscoli pesciolini d’argento secchi in una cesta di vimini. Dal soffitto di un negozio pendono grappoli di salsicce cinesi, come delle grosse dita lucide e unte. Gamberetti induriti, di un arancione fosforescente, sono ammucchiati accanto a cetrioli di mare anneriti.

In definitiva, direi che il negozio di Yuk Kee Duck non mi attrae più di tanto. Svolto per Liang Seah street. Mi cade l’occhio su alcune piccole melanzane di un viola acceso esposte sul buffet singaporiano di Nasi Lemak. Ne compro qualcuna e me la vado a mangiare in un angolo tranquillo della hall del nostro albergo. La melanzana è squisita, ma il pezzo forte è la utah, una pasta di cocco, peperoncino e pesce arrotolata in una foglia di banana e poi arrostita.

L’involtino sprigiona un dolcissimo calore, ma la cosa più bella è srotolare la foglia. Il contorno invece è una porzione di kang hong, una verdura simile agli spinaci, soffritta con quei gamberetti che ho visto poco fa a Victoria street. È piccante e intenso, e ha la consistenza del riso soffiato. Il piatto è cosparso di pesciolini argentati.

Sono tutto preso da questi sapori nuovi e stimolanti quando un viso paonazzo mi si pianta davanti come un palloncino rosso. I suoi occhi da pesce bollito mi guardano male e il labbro superiore si arriccia in evidente segno di disprezzo. “Le dispiacerebbe non mangiare nella hall del mio albergo?”. Odio gli snob spocchiosi. “Lo sa chi sono io?”. Odio gli zotici maleducati. “Sono il direttore!”.

Odio i boriosi prepotenti. Mi sento leggermente imbarazzato e vagamente umiliato. Tre ore dopo sono sul palco e invito le seimila persone del pubblico a una rapida festa fast food nel nostro hotel. Arrivano, una moltitudine felice, stringendo cartoncini unti e calpestando rimasugli di cibo nell’adorata moquette dello sbalordito pallone gonfiato. Molto infantile da parte mia, certo, ma la vendetta è un piatto che va servito in fretta, piuttosto che freddo.

Internazionale, numero 635, 30 marzo 2006

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