Hai pronunciato il mio nome correttamente”, mi ha detto Yahya. Ho provato una certa soddisfazione: sapevo pronunciare l’h gutturale, mentre lui, che ha 65 anni, no.
Alcuni anni fa ha cambiato il nome da John a Yahya, che in arabo ha la stessa radice di “vita” (come in ebraico). Pronuncia il suo nuovo nome con un tono da gospel. “Ecco”, ha detto, tirando fuori la sua tessera della previdenza sociale da un grosso portafoglio che aveva appoggiato su un tavolo, al piano superiore della moschea (la sua tunica non aveva tasche). “Il mio nome è Yahya Soboor Adil Abdallah. In arabo soboor vuol dire pazienza e adil giusto”.
È il nome che ha adottato quando si è “invertito” all’islam (non “convertito”, sottolinea), dopo anni in cui entrava e usciva dal carcere e passava le sue giornate per le strade di Harlem mentre la madre lo rimproverava: “Sei come tua nonna. Sai solo bere”.
La nonna era al cento per cento cherokee e questo spiega gli zigomi pronunciati e il naso minuto di Yahya. La pelle scura, invece, l’ha ereditata dai suoi avi africani. Non sa da dove venissero, ma è sicuro che erano musulmani (eppure lui è stato battezzato come protestante). All’inizio aveva pensato di conservare il cognome Johnston, ma poi un amico gli ha detto che tutti i nomi degli afroamericani derivano dai proprietari schiavisti dei loro antenati. Così l’ha cambiato: Abdallah significa “schiavo di Dio”.
Per lo stesso motivo Malcolm scelse di chiamarsi X, cancellando il cognome ereditato da uno schiavista. Me l’ha spiegato l’imam della moschea di Newburgh. Ed ecco perché anche lui ha cambiato il suo nome, da Leon Lawson a Salahuddin Mohammad. Era ancora in carcere quando scelse l’islam, disgustato dall’ipocrisia del cristianesimo.
Solo in seguito ha scoperto che per prevenire l’incesto e per questioni di eredità l’islam vieta di cambiare cognome. “Tanto non abbiamo proprietà da ereditare o da lasciare a qualcuno”, ha detto, per giustificare la violazione.
*Traduzione di Nazzareno Mataldi.
Internazionale, numero 798, 5 giugno 2009*
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