L’odio è la conseguenza, e non l’origine, della violenza. Ma non tutti lo capiscono, scrive Amira Hass.
“Gli abitanti di Gaza odiano gli israeliani?”, mi ha chiesto un giornalista straniero in un’intervista telefonica. In realtà non me l’ha chiesto direttamente, ma ha inserito la domanda nell’articolo per introdurre, in modo un po’ forzato, una mia affermazione sugli abitanti di Gaza (che spesso parlano con me in ebraico e rimpiangono i tempi in cui potevano andare in Israele).
Il giornalista è stato poi abbastanza corretto da leggermi ad alta voce il breve articolo. Io ho protestato per la domanda sull’odio, ma lui ha risposto che aveva il diritto di chiedere quello che voleva. “È vero”, gli ho detto, “ma se lei mi avesse fatto la domanda direttamente io avrei risposto in modo diverso. Le avrei detto: ‘Perché non mi chiede dei soldati israeliani che hanno lasciato scritte piene d’odio per i palestinesi sui muri delle case dove avevano appena ucciso dei civili innocenti? Perché non mi chiede se questo non dimostra che gli israeliani sono pieni di odio?’”. Il giornalista poi ha usato questa risposta.
Temo però che non abbia usato la mia risposta a un’altra domanda: gli abitanti di Gaza vogliono la pace? “Gli abitanti di Gaza vivono in condizioni così difficili che devono pensare alle cose essenziali, come a riparare le finestre rotte un anno fa o al gas da cucina che non c’è. È naturale che provino odio, anche se a me che sono israeliana molti lo tengono nascosto per educazione. Tanti altri (non so come) riescono a distinguere tra Israele e gli israeliani”. La domanda mi ha fatto arrabbiare perché alludeva a un sentimento perfettamente comprensibile trattandolo come se fosse la causa e non la conseguenza del problema. Era una domanda da “uomo bianco”.
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