Fichi, uva e olive. Fichi che si sciolgono in bocca, raccolti per me da due ragazze del posto. Grappoli d’uva grandi e succosi, olive immerse nell’acqua in due bottiglie di plastica. Una donna mi chiede se so come trattare le olive tra dieci giorni, quando perderanno il loro gusto amaro. Sì, rispondo imbarazzata. Devo immergerle in acqua, sale e limone. L’ho imparato anni fa nel campo profughi di Shabura, a Rafah, nella Striscia di Gaza.

Il mio imbarazzo non dipende dalla poca esperienza nel trattamento delle olive. È un imbarazzo che ho già provato a Einabus (un villaggio a sud di Nablus) e a Hebron. Questa volta sono ad Halhul (appena a nord di Hebron). Le persone che con tanta generosità condividono con me i frutti della loro terra vivono in regioni dove l’acqua è talmente scarsa che durante l’estate esce dai rubinetti solo una volta alla settimana, una volta al mese o anche mai. Fortunatamente questi frutti non hanno bisogno di molta acqua, a parte quella piovana.

Ho visitato questi villaggi per un’inchiesta sulla penuria di acqua. Forse però penuria non è la parola giusta. Basta guidare per qualche chilometro a est o a sud ed ecco che si incontrano posti dove l’acqua non manca mai. Sono le colonie israeliane.

Il controllo delle falde acquifere permette a Israele di limitare la quantità d’acqua a disposizione dei palestinesi. Quindi non si tratta di penuria: è una deliberata distribuzione diseguale della risorsa naturale più preziosa.

Traduzione di Andrea Sparacino

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