Anche se non la conoscevo, dopo la conferenza ad Auckland ho percepito subito l’ostilità di quella donna. Mentre gli altri spettatori mostravano di apprezzare il mio intervento (sull’occupazione israeliana), lei aveva lo sguardo pieno di rabbia. “Come può dire che spetta ai palestinesi modificare il loro atteggiamento se vogliono migliorare la situazione? Non si possono incolpare le vittime”, mi ha accusato. A quel punto sono stata io a sentirmi offesa.
Nei giorni successivi ho incontrato la donna, un’attivista maori, altre due volte: il giorno dopo, a una conferenza, e poche ore prima della mia partenza, quando insieme ad altri attivisti mi ha raccontato la lotta dei maori. Non abbiamo avuto il tempo di chiarire le nostre divergenze. L’ostilità, comunque, è scomparsa, anche perché mi ero ripromessa di mettere da parte l’orgoglio e di apprezzare la sua schiettezza. Se avessi avuto più tempo le avrei detto che i miei dodici giorni in Nuova Zelanda mi hanno insegnato che è solo grazie alla lotta dei maori che i bianchi hanno abbandonato i loro piani di appropriazione e introdotto il maori come seconda lingua nelle scuole.
Tuttavia, la prossima volta che potrò esprimere la mia opinione (cioè che solo gli oppressi hanno interesse a cambiare la situazione, quindi devono imparare dagli errori del passato), cercherò di chiarire che sono consapevole dei trucchi messi in atto dagli oppressori contro gli oppressi, e di quanto sia importante solidarizzare con i secondi.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è stato pubblicato il 15 maggio 2015 a pagina 31 di Internazionale, con il titolo “Oppressi e oppressori”. Compra questo numero | Abbonati
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