Sarebbe bello tornare ai tempi della guerra fredda, vero? Allora sapevamo bene come stavano le cose, avevamo un avversario chiaro, c’erano i falchi e le colombe, i buoni e i cattivi. La politica estera statunitense si preoccupava di arginare la minaccia o di minacciare a sua volta, di mantenere alleati fedeli e di disturbare il nemico ovunque fosse possibile. Tutto finì nel 1989.
Nel 2001 la prima amministrazione di George W. Bush considerava la Cina il nemico principale, fino all’11 settembre, quando il nemico diventò Al Qaeda e l’estremismo islamico. Con il senno di poi l’amministrazione Bush ebbe una reazione giusta all’80 per cento e sbagliata al 100 per cento.
Capì che Al Qaeda e i suoi imitatori erano in parte il prodotto dei regimi arabi laici e repressivi che avevano reso i giovani più sensibili all’estremismo. E che la democratizzazione era l’unica soluzione, perché così i politici sarebbero stati spinti ad affrontare i problemi reali (la violenza della polizia, la mancanza di servizi pubblici e di infrastrutture eccetera), invece di continuare a parlare di Allah e inveire contro la cattiveria degli ebrei e degli americani.
Se si dava al mondo musulmano l’aria per respirare, disse Bush nel suo discorso di Londra, il cambiamento sarebbe venuto da sé. Tragicamente, però, in Iraq e in Afghanistan decise di imporre la democrazia con le armi, con falsi pretesti e quasi nessuna pianificazione. Il resto della storia lo conoscete.
Una difficile eredità
Questa è la situazione che Barack Obama ha ereditato. La grande sfida era trovare una nuova strategia per uscire da questo pasticcio. E ora si cominciano a vedere i contorni del suo progetto. Però in un ottuso articolo di copertina del settimanale Newsweek, un mio vecchio amico, lo storico britannico Niall Ferguson, ha sostenuto che Obama non ha nessuna strategia. Secondo Ferguson, non è riuscito a sfruttare la tentata rivoluzione verde iraniana del giugno 2009 e durante le rivolte in Tunisia ed Egitto di quest’anno non sapeva cosa fare.
È stata una “sconfitta della politica estera americana” come quella di Jimmy Carter. Nella regione Obama si è “alienato le simpatie di tutti”, sia dei leader autoritari sia dei cittadini democratici. Avrebbe dovuto trovarsi un Kissinger e fare qualcosa di grande (non si sa cosa, perché Ferguson non lo dice). Ma dato che Obama non aveva un Kissinger, il suo è stato un “fallimento colossale”.
La mia opinione è che nel riconoscere i limiti della potenza e dell’influenza statunitense, Obama ha rafforzato la posizione di Washington. Ha dimostrato di avere una strategia. Fin dall’inizio del suo mandato ha cercato di modificare l’immagine degli Stati Uniti tendendo la mano al mondo musulmano moderato, per promuovere la democrazia con l’esortazione e con l’esempio e per proteggere allo stesso tempo gli interessi americani.
E quindi nel 2009 ha tenuto uno dei suoi discorsi, il primo e il più delicato per la politica estera, proprio al Cairo. Ha cominciato parlando di un riavvicinamento all’islam, ma ha proseguito con queste parole: “Nessun sistema di governo può o deve essere imposto da un paese a un altro. Questo però non diminuisce il mio impegno a sostenere quei governi che riflettono la volontà del popolo”. Poi ha aggiunto di essere “convinto che tutti i popoli aspirino ad avere le stesse cose: la possibilità di esprimersi liberamente e di decidere in che modo vogliono essere governati”. E ha concluso: “Questi non sono solo i nostri ideali, sono diritti umani, ed è per questo che li sosterremo ovunque”.
Obama è un uomo pragmatico, si è trovato ad affrontare l’Iran e Israele e ora anche l’inaspettata ondata di rivolte democratiche in tutta la regione. Che abbiamo imparato nelle ultime settimane?
Disinnescare la bomba
La prima cosa che fanno i dittatori è dare la colpa all’ingerenza straniera, agli israeliani e agli americani. Ma questa volta non ci sono riusciti. Obama non ha fatto nulla mentre cresceva la ribellione in Egitto? Ha fatto bene. Avreste preferito una reazione automatica e pericolosa come quella di Bush? Non ho visto nessun cartello contro gli Stati Uniti tra la folla e nessun riferimento a Obama.
La strategia del presidente è chiara: cercare di disinnescare la guerra di religione che alimenta il terrorismo jihadista, snidare ed eliminare il suo zoccolo duro in Afghanistan, Pakistan e Yemen, risolvere il problema israelo-palestinese e destreggiarsi in modo pragmatico tra la difesa dei suoi alleati e la promozione della democrazia. Certo, qualche errore è stato commesso, ma anche John Boehner, lo speaker repubblicano della camera, ha ammesso che in Egitto Obama ha gestito “una situazione molto difficile nel miglior modo possibile”.
Cosa avrebbe voluto Ferguson? E cosa avrebbe voluto che Obama facesse durante la rivoluzione verde? Che desse al regime la soddisfazione di dire che la rivolta era una congiura straniera? Che bombardasse Teheran? Stiamo assistendo a proteste di massa in tutto il mondo arabo. Qualche volta in passato era già successo. Ma questa volta qual è la differenza? Non ho visto dar fuoco a nessuna bandiera americana. Se questa è una sconfitta, ne vorrei vedere tante altre così.
*Traduzione di Bruna Tortorella.
Internazionale, numero 886, 25 febbraio 2011*
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