Un articolo uscito qualche giorno fa sulle pagine della Repubblica sembra lanciare un messaggio netto. “Il talento non conta, solo l’esercizio ci fa primeggiare. Dalla musica allo sport: le nuove teorie della scienza”, dice l’occhiello. “La regola del successo, 10.000 ore di pratica e sei bravo in tutto”, conferma il titolo. Nel video che promuove l’articolo online si parla addirittura di una “cifra magica del successo”.
Si sa, i titoli sono fatti per catturare l’attenzione. Però il testo (che riprende un assai meno tassativo articolo uscito sul newsmagazine della Bbc) prosegue sullo stesso tono. In estrema sintesi: basterebbero 1.250 giorni, su per giù tre anni e mezzo, per padroneggiare qualsiasi disciplina con assoluta maestria. Ad affermarlo sarebbero diversi autori, tra cui Malcom Gladwell nel best seller Fuoriclasse. Storia naturale del successo (Mondadori 2008. Wikipedia ha un’ampia scheda in inglese sull’originale, intitolato Outliers).
Tutti gli autori, dice l’articolo, fanno riferimento a uno studio pubblicato nel 1993 dallo psicologo statunitense Anders Ericsson, il quale mette a confronto il tempo impiegato da un gruppo di violinisti più o meno bravi per esercitarsi: i migliori si sono esercitati in media per diecimila ore, gli altri per quattromila. L’articolo in conclusione accenna al fatto che “su quanto pesi il talento in sé, le opinioni divergono anche tra i teorici delle 10.000 ore” e termina citando una “celebre battuta di Hemingway”: il successo è 1 per cento inspiration (ispirazione) e 99 per cento perspiration (sudore).
Le cose, per quanto mi risulta, sono “quasi” così ma non proprio così. E, si sa, il diavolo si nasconde nei dettagli. Per cominciare, a difendere il primato del sudore sull’ispirazione non è l’irrequieto, epico scrittore Ernest Hemingway ma il metodico, ostinato inventore e imprenditore Thomas Alva Edison.
Se non si trattasse di Edison questa sarebbe solo una precisazione pedante: ma la citazione ha rilievo anche perché appartiene a un signore che nell’arco di un’intera vita, tra i venti e gli ottantadue anni, deposita 1.084 (secondo alcuni 1.093) brevetti – tra questi, il fonografo e la lampadina – e che è il quarto inventore più prolifico di sempre. Fatta da lui, l’asserzione che “per avere risultati bisogna sudare” fa tutto un altro effetto.
E poi Edison è proprio uno che, metaforicamente, “suda”: ha uno stile di lavoro meticoloso e intensivo e procede per prove ed errori, tanto da essere definito un “brute force experimenter” dal brillante Nikola Tesla, suo strenuo avversario scientifico nel primo scontro industriale-mediatico della storia, la “guerra delle correnti” (una vicenda incredibile di lobby contrapposte, condotta tra disinformazione sistematica, elefanti folgorati e altri colpi bassi).
Ma torniamo al nostro tema. Il secondo punto da notare è che la teoria delle diecimila ore è tutt’altro che nuova. La formulano per primi nel lontano 1977 Herbert Simon (non uno qualsiasi: premio Nobel per l’economia, psicologo, informatico, padre dell’intelligenza artificiale… uno dei geni del ventesimo secolo) e William Chase. A ricordarlo è lo stesso Gladwell sul New Yorker.
E, già che ci siamo, Gladwell precisa che “achievement is talent plus preparation…”: nei campi ad alta complessità cognitiva, dagli scacchi alla chirurgia, avere talento innato è una condizione necessaria ma non sufficiente per ottenere prestazioni eccezionali. Le quali appunto, chiedono pratica. Quanta? Dipende: perché uno scacchista diventi grande maestro possono essere necessarie anche cinquantamila ore. Per diventare bravissimi nel salto in alto o nel wrestling può volerci molto meno.
Il terzo, e forse più importante, punto da notare riguarda invece quello che intendiamo per “pratica”. Lo ribadisce lo stesso Ericsson: in termini di successo, la qualità della pratica è fondamentale. Deve trattarsi non di puro esercizio, ma di “pratica deliberata”.
La pratica deliberata è qualcosa di profondamente diverso dal semplice allenamento: chiede una dose altissima di concentrazione e si focalizza non sul mantenere, ma sull’estendere costantemente le proprie capacità. Consiste nel continuare a forzare i propri limiti e nel lavorare in modo accanito sui punti deboli. Per riuscirci bisogna essere molto tenaci, molto esigenti e molto onesti con se stessi.
Insomma, talento e predisposizione servono e contano, però da soli non bastano: per raggiungere l’eccellenza possono essere necessarie anche meno di diecimila ore, ma anche molte di più. E, comunque, si suda abbastanza, o tanto, o tantissimo.
È anche – aggiungo io – opportuno che ciascuno capisca qual è lo stile di lavoro che maggiormente si adatta al suo talento e che meglio sviluppa le sue capacità. Per capirci: vi sentite più dalla parte di Tesla o da quella di Edison? Stile di lavoro e tempo sono, ovviamente, correlati.
Comunque, una cifra magica e costante del successo non esiste: diecimila ore stanno per “tanto ma tanto tempo”. Se però volete fare in fretta per raggiungere l’eccellenza assoluta lasciate perdere gli scacchi o la chirurgia, e anche la composizione musicale e l’informatica. Scegliete il wrestling.
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