La prima edizione del festival della comunicazione di Camogli è affollata ed energica. Fatto curioso: i più giovani tra i relatori che vado ad ascoltare raccontano le loro storie di vita, i meno giovani evocano visioni del mondo. A rigor di logica, ci sarebbe da aspettarsi il contrario. Ma, poiché si tratta di giovani che hanno fatto scelte interessanti e di meno giovani che presentano visioni suggestive, va bene anche così.

Qui di seguito provo a dirvi alcune delle idee che ho intercettato.

Il semiologo Umberto Eco apre distinguendo tra comunicazione soft e hard (qui il video dell’intervento). Dice che oggi definiamo “grande comunicatore” chi sa esprimere le proprie idee (una volta sarebbe stato un “grande oratore”), ma comunicare non è solo questo: è, letteralmente, trasportare volontariamente nella mente di qualcun altro qualcosa che sta nella nostra mente.

Se in passato il canale (aria, fili elettrici, onde radio) era considerato irrilevante – nient’altro che “ferraglia hard” – oggi sappiamo che non è così, specie per quanto riguarda la complessa (per quantità di interlocutori e possibili influenze ambientali e situazionali) comunicazione di massa: la partecipazione emotiva è influenzata dalla natura del medium, cioè “della ferraglia”. E internet modifica l’intero sistema.

Con internet – lo segnala il filosofo Maurizio Ferraris – cambia anche la qualità della risposta dell’interfaccia umana. Il web da una parte costringe ciascuno a una mobilitazione totale (chi non si sente obbligato a sbirciare l’ultimo sms, anche a notte fonda?). Dall’altra, offre non solo comunicazione, ma registrazione. E la registrazione è memoria, l’essenza stessa di qualsiasi società, e in massima misura della società contemporanea.

A sua volta, la registrazione implica una responsabilizzazione: ogni domanda, nella misura in cui è registrata, non può più essere ignorata. È un ordine, che spinge a “fare” qualsiasi cosa, perfino ricatti o gaffe madornali, incaute dichiarazioni d’amore o di guerra. E, in molti casi, a lavorare gratuitamente producendo plusvalore assoluto.

Di questa sindrome parla il giornalista Roberto Cotroneo. Ricorda che Facebook è il quarto paese del mondo dopo India, Stati Uniti e Cina; che oggi nel mondo ci sono cinque miliardi e quattrocento milioni di apparecchi fotografici; e che con Final Cut, al costo di venti dollari, chiunque può montare un video. Nel 1936 a New York c’era un pianoforte per ogni famiglia e mezza. Oggi c’è tutta la musica che vogliamo, subito, sempre. Se abbiamo una domanda (chi era Chet Baker?) possiamo soddisfarla in modo istantaneo e completo.

Eppure Facebook è un “mondo analogo”, non un mondo vero: da una parte essere famosi su Facebook è un po’ come essere ricchi con i soldi del Monopoli. Dall’altra condividere con chi non conosciamo vuol dire fare broadcast, cioè pubblicare.

Tutto ciò rivoluziona i meccanismi di produzione e distribuzione delle informazioni. Silvio Gulizia, giornalista e consulente per startup, ricorda che secondo il tecnologo Clay Shirky i quotidiani spariranno entro una decina d’anni. A partire dal 2000 sono crollati gli investimenti pubblicitari e un terzo dei giornalisti ha perso il lavoro. Eppure Jeff Bezos, il fondatore di Amazon, ha scommesso nella lettura su tablet e nel 2013 ha comprato il Washington Post, e anche il fondatore di eBay investe nelle news online.

Se includiamo anche la rete, il mercato delle notizie è in crescita, c’è spazio per più di un vincitore e gli investimenti necessari sono tutto sommato modesti. Metà della gente sta sui social network per leggere o commentare notizie, sono di news metà dei video visti e i più interessati all’informazione online sono i giovani sotto i trent’anni: gli stessi che non comprerebbero mai un quotidiano di carta, che vogliono news personalizzate e sono disposti a partecipare alla creazione di informazione. Le innovazioni legate alle news si sviluppano su due filoni: da una parte sui contenuti (creati, riassemblati, segmentati per pubblico), dall’altra sui servizi di raccolta e visualizzazione dati e il fact checking. Anche in Italia qualcosa si sta muovendo.

Lavora sui contenuti il giovane (24 anni) divulgatore informatico Salvatore Aranzulla. Ha cinque fratelli, un padre infermiere, vive in uno sperduto paesino della Sicilia e comincia a scrivere di informatica a 12 anni: “Tornavo a casa da scuola e non c’era niente. La rete era un modo per evadere”.

Lui impara a spiegare la tecnologia scrivendo per altri. A sedici anni fonda il suo blog. A diciotto la sua prima azienda. Sei anni dopo dà lavoro a quindici persone, ha individuato un modello di business lineare e brillante (recensisce solo roba che interessa al pubblico – quale? Glielo dice un algoritmo – e che lo convince, e offre spazi pubblicitari ben pagati alle aziende produttrici), si sta laureando in Bocconi e studia da pasticciere con Gualtiero Marchesi (“ma per ora soprattutto lavo i piatti”) perché crede che bisogna valorizzare le abilità manuali, e bisogna saper cambiare.

Anche Amedeo Balbi parla di contenuti a proposito della (negletta, nel nostro paese) comunicazione scientifica. Decide di fare l’astrofisico dopo aver visto Guerre stellari da bambino, e di fare il divulgatore perché sua madre non capisce che cosa accidenti sta studiando.

Se lo scopo primario della divulgazione è farsi capire, dice, il segreto è creare immagini vivide, anche a costo di sacrificare un po’ di complessità e precisione. D’altra parte anche i modelli scientifici semplificano la realtà, ed è Einstein a dettare la norma: bisogna rendere le cose più semplici possibile, ma non più semplici di così.

L’imperativo, invece, è trasmettere l’entusiasmo, la meraviglia e la curiosità dello scienziato. Al politico che gli chiede a cosa serva la sua ultima scoperta sull’elettromagnetismo, Michael Faraday risponde: al momento non ne ho idea, ma so che in futuro lei potrà metterci una tassa.

L’intervento più evocativo? Forse quello di Corrado Augias (qui il video integrale) sulla differenza tra vedere e guardare e sulla (immutata, anche con il web) fatica della lettura. Guardare, dice Augias, mobilita solo una parte del nostro cervello, vedere stimola l’intero sistema. La tv “si guarda”, anche a patto di non capire. La parola parlata, specie se accompagna immagini, non tollera un’alta densità di contenuto.

La parola scritta è la forma di comunicazione più alta e complessa anche per la sua stabilità. Ed è altamente innaturale (e dunque civilizzata): ci obbliga a decifrare segni simbolici ambigui, e ci obbliga a “vedere” dentro lo scritto, a colmarne i vuoti, a dedicare a questo compito un’attenzione totale, a dialogare con noi stessi. E, come scrive Machiavelli, ci fa “vestire panni reali e curiali”.

L’intervento più divertente: quello del semiologo Paolo Fabbri intitolato Est iniuria verbis. Tema: le parolacce. Alla libertà di parola del sessantotto è seguito un periodo postvittoriano di buoni sentimenti, in cui le parolacce sono state sostituite da puntini e bip e gli spazzini si sono trasformati in operatori ecologici. Ma ora assistiamo a un’inversione cattivista: il linguaggio è un energumeno. Del resto, l’etimo latino di “insulto” è “saltarsi addosso”, e insultare è un’arte marziale verbale. Qui un testo di Paolo Fabbri sul tema.

Infine: insieme a Luca De Biase, la sottoscritta ha parlato di quanto sarebbe opportuno costruire un immaginario sul nostro paese superando gli stereotipi più consumati (caffè, pallone, spaghetti, italiani brava gente…). Dovremmo sognare un sogno un poco più grande e contemporaneo a proposito di noi stessi e poi, come dice De Biase, svegliarci e realizzarlo.

Volendo, ci sono un altro paio di cosucce in questo video, in cui la sottoscritta è, come al solito, imbarazzatissima davanti alla telecamera. Alla faccia della comunicazione.

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