Ce ne siamo dimenticati, ma un paio d’anni fa era già cominciato un ragionamento collettivo sul fatto che i mezzi di informazione debbano o meno dar spazio a ogni individuo o fenomeno che susciti l’interesse del pubblico, compresi quelli discutibili o tossici.
Quel ragionamento era guidato dalla consapevolezza che l’eco mediatica ha comunque effetti positivi. E che li ha comunque, a prescindere dalle intenzioni degli stessi mezzi di informazione.
Di tutto ciò ho provato allora a dar conto con un articolo intitolato “Paradosso della visibilità. Come i media premiano chi deplorano”. L’ho pubblicato il 31 luglio 2016, poco dopo il referendum per la Brexit (23 giugno) e dopo l’annuncio della rinuncia di Le Monde a pubblicare immagini di terroristi per evitare “glorificazioni postume” (27 luglio).
L’articolo è però uscito prima delle elezioni americane (9 novembre dello stesso anno), e prima del dibattito sulle fake news che ne è immediatamente conseguito. Prima di molte altre cose inattese che sono successe in seguito.
Il paradosso
In estrema sintesi, il paradosso della visibilità consiste in questo: sia i mezzi di informazione classici sia i social media offrono grande visibilità anche a idee, persone e organizzazioni biasimevoli. Lo fanno anche nell’intento di denunciarne e stigmatizzarne i comportamenti portandoli alla pubblica attenzione.
Ma c’è una conseguenza inattesa e contraria: in un tempo in cui l’essere visibili appare in sé desiderabile, la visibilità offerta dai mezzi di informazione è comunque preziosa e premiante, indipendentemente dai motivi per cui viene ottenuta, e dai giudizi che la accompagnano.
In teoria, basterebbe distinguere tra notizie che vanno date a ogni costo e notizie che potrebbero essere taciute, o coperte in modo ridotto e soprattutto meno emotivo o voyeuristico, senza rilevante perdita d’informazione per il pubblico. Sembra una ricetta semplice, ma non è per niente facile da applicare.
Ed ecco perché. Sappiamo ormai che le brutte notizie provocano risposte emozionali più forti, e quindi suscitano molto più interesse, e quindi si guadagnano più pubblico delle buone notizie. Sappiamo inoltre che le notizie false si diffondono molto più in fretta ed estesamente di quelle vere. Nello stesso modo, anche le pessime idee e i brutti ceffi, i cattivi esempi e i cattivi maestri funzionano alla grande in termini di audience: generando scandalo, catturano l’attenzione e aggiungono pepe al dibattito.
E poi c’è la (legittima) ossessione dei mezzi di informazione di bucare una notizia o di farsi scippare dai concorrenti un personaggio che, proprio per il suo essere controverso, suscita curiosità e interesse. Infine, forse, c’è anche un po’ di illusione di avere la forza necessaria a governare e orientare il flusso dell’informazione, delle percezioni e delle interpretazioni che ne derivano.
Oggi però, mi sembra, dobbiamo riflettere ulteriormente sui meccanismi della visibilità. E sul fatto che procurarsela a ogni costo sia diventato un impegno primario (pensate all’intensiva e ossessiva presenza di molti personaggi pubblici sui social media).
Tre punti
Mi sento di proporvi tre punti a cui prestare attenzione.
Primo punto. Negli ultimi anni tutte le scelte dei cittadini, comprese le scelte elettorali, sono diventate fluide. Vuol dire che ampie percentuali di consumatori possono cambiare scelte d’acquisto in un battibaleno, che ampie percentuali di spettatori modificano radicalmente le proprie preferenze rispetto al passato, che l’opinione pubblica è ondivaga e suggestionabile, che ampie percentuali di elettori sono disposte a non votare di nuovo il partito che hanno votato in precedenza.
Questo fatto ha diverse conseguenze: per esempio, fette più ampie di consumatori, di spettatori, di cittadini, di elettorato sono contendibili, e la competizione per accaparrarsele diventa spregiudicata e feroce. E come si compete? In primo luogo, a colpi di visibilità. Cercando sia di procurarsene, sia di oscurare gli avversari togliendo loro occasioni per rendersi visibili.
Ed ecco spiegato il gioco dei convegni e dei controconvegni, delle manifestazioni e delle contromanifestazioni, delle dichiarazioni roventi e delle controdichiarazioni infuocate. Suvvia, non sono dispettucci infantili: è competizione dura. È lotta per la sopravvivenza. Ed è marketing.
Oggi tutti i voti, tranne percentuali esigue, vanno conquistati e riconquistati ogni volta
A proposito di elezioni: non è più vero che si vincono spostandosi al centro. Questo funzionava quando i partiti erano forti di un patrimonio di voti ideologici, stabili nel tempo, e la sfida consisteva nell’accrescere il patrimonio consolidato andando a catturare (al centro) gli indecisi.
Oggi tutti i voti, tranne percentuali esigue, vanno conquistati e riconquistati ogni volta. Farlo è più facile se si ha un’identità decisa, e l’essere molto visibili è la precondizione indispensabile per costruirsela, quell’identità. Quindi: tutti a caccia di visibilità, a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo, compreso il dichiarare qualsiasi cosa possa far rumore.
Secondo punto. Disintermediazione. Se non ci sono più corpi intermedi a spiegare a chi e a che cosa bisogna prestare attenzione in quanto meritevole di interesse e fiducia, e a orientare le percezioni dei temi e delle proposte, l’unico criterio di scelta delle persone, isolate e frastornate, passa da questa equivalenza sballata: visibile = importante = migliore.
In sostanza, la preziosa visibilità garantisce di essere “top of mind”. È una definizione che si usa per la prima marca che viene in mente ai consumatori quando pensano a una determinata categoria merceologica (automobili, computer, bevande gassate… qual è la prima marca che vi viene in mente? Eccola, quella è il vostro “top of mind”). Per le marche, esserlo costituisce una barriera all’ingresso per i concorrenti, e un’automatica attribuzione di qualità e prestigio.
Bene: proprio allo stesso modo, anche nel mercato disintermediato e volatile delle opinioni e dalla politica l’essere “top of mind” danneggia e indebolisce gli avversari, e conferisce credito e prestigio.
Terzo punto. Popolarità. È ovviamente più “popolare” chi maggiormente gode del favore del “popolo”. Ma se la popolarità è una combinazione di notorietà e gradimento, risulta evidente che non ci può essere popolarità senza notorietà, e non ci può essere notorietà senza visibilità. E rieccoci al nostro tema centrale.
Suggerimenti provvisori, in attesa di soluzioni (che però non riesco a immaginare. Ma magari qualcuno di più sveglio di me ci riesce): essere consapevoli del fenomeno in sé. Essere consapevoli del fatto che, nella guerra per la visibilità, le munizioni vengono prodotte dal sistema mediatico non sempre in modo volontario, e che il premio di chi vince è l’attenzione di tutti noi. Essere consapevoli del fatto che l’equivalenza visibile = importante = migliore è falsa come i soldi del Monopoli. E che, purtroppo, tutto questo non è un gioco.
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