Un anno fa, nella notte tra il 26 e il 27 settembre 2014, sono scomparsi a Iguala 43 studenti della scuola normale rurale di Ayotzinapa, nello stato messicano di Guerrero. Altri sei sono stati assassinati e cinque sono stati feriti. Secondo la versione ufficiale, quella fornita dal governo guidato dal presidente Enrique Peña Nieto e dalla procura generale della repubblica, i ragazzi sarebbero stati sequestrati da alcuni poliziotti e consegnati a un gruppo di trafficanti locali chiamato Guerreros unidos. Questi criminali, credendo che gli studenti appartenessero a un gruppo rivale di narcotrafficanti della zona, li avrebbero uccisi e cremati in una discarica a cielo aperto alla periferia di Cocula, a pochi chilometri da Iguala. Le ceneri, chiuse in sacchi della spazzatura, sarebbero state gettate nel vicino fiume San Juan.

I resti ossei rinvenuti nella discarica di Cocula sono stati inviati al laboratorio dell’università di Innsbruck, in Austria, per essere analizzati. Finora l’unico studente identificato è stato Alexander Mora Venancio, di 19 anni. Il 17 settembre le autorità messicane hanno annunciato che era stato identificato un secondo ragazzo, Jhosivani Guerrero de la Cruz, di 20 anni, ma secondo la squadra argentina di antropologi forensi che sta indagando su specifica richiesta dei parenti delle vittime, non ci sono abbastanza elementi per confermare l’identità dello studente.

I genitori dei ragazzi di Ayotzinapa chiedono alle autorità di continuare a indagare

Mentre il governo cerca quanti più elementi possibile per sostenere la sua versione dei fatti, i genitori dei ragazzi di Ayotzinapa dubitano e diffidano: da mesi scendono in piazza per chiedere alle autorità di continuare a indagare sul ruolo dell’esercito, presente a Iguala al momento dei fatti. E molti non si rassegnano all’idea che siano morti.

Alcune indagini condotte parallelamente a quelle ufficiali sembrano dare ragione ai familiari delle vittime. Il 6 settembre 2015 un gruppo interdisciplinare di esperti indipendenti, nominato dalla Commissione interamericana per i diritti umani, ha presentato a Città del Messico un rapporto di oltre cinquecento pagine che smentisce la versione della procura generale del Messico. Secondo gli esperti, per bruciare 43 cadaveri sarebbero servite tredici tonnellate di pneumatici e trenta tonnellate di legna. Il fuoco sarebbe dovuto durare sessanta ore, creando una nube alta trecento metri visibile da chiunque abiti nelle vicinanze. Quindi la versione del governo non è scientificamente plausibile.

A una conclusione simile arriva anche l’inchiesta condotta dalla giornalista messicana Anabel Hernández e dallo statunitense Steve Fisher, con il supporto dell’università di Berkeley e pubblicata dal settimanale Proceso. I due reporter hanno denunciato il ruolo svolto dall’esercito nella sparizione degli studenti: non solo il governo ha coperto il ruolo delle forze dell’ordine, ma gran parte delle testimonianze su cui si basa l’indagine delle autorità è stata estorta sotto tortura e quindi non è attendibile.

I fatti di Iguala hanno provocato nei messicani un disincanto assoluto per la politica

Le sparizioni sono una realtà con cui il Messico fa i conti da anni: dal 2007 al 31 luglio 2015 il governo ha riconosciuto che nel paese sono scomparse più di 25mila persone. Anche per lo stato di Guerrero questi crimini non sono una novità: negli anni settanta e ottanta del novecento la regione aveva già vissuto una terribile guerra sporca, con centinaia di guerriglieri uccisi o scomparsi per mano di militari e poliziotti. Ma gli eventi del 26 settembre 2014 hanno scosso profondamente l’opinione pubblica e hanno segnato uno spartiacque per la popolazione civile e per il governo.

Fin dall’inizio l’esecutivo ha cercato di minimizzare i fatti, accettando di incontrare i familiari degli studenti solo un mese dopo la tragedia, quando la sparizione dei 43 ragazzi era già rimbalzata su tutti i mezzi d’informazione stranieri. Per quanto riguarda i cittadini, secondo il giornalista e direttore di SinEmbargo Jorge Zepeda Patterson i fatti di Iguala hanno provocato nei messicani un disincanto assoluto per la politica, e in particolare nei confronti del presidente: “Ayotzinapa ha liquidato il capitale politico di Peña Nieto, trasformando i tre anni che restano alla fine del suo mandato in inutile tempo perso”.

Un anno dopo la sparizione dei 43 ragazzi che studiavano per diventare maestri, il paese è ancora in attesa di giustizia. Il 24 settembre, spinto dall’urgenza del primo anniversario della scomparsa degli studenti, il presidente ha incontrato per tre ore i familiari delle vittime e ha garantito che le indagini su Iguala andranno avanti. È una buona notizia, ma non è sufficiente. I parenti delle migliaia di persone scomparse, gli attivisti per i diritti umani e molti giornalisti che ogni giorno rischiano la vita per denunciare cosa succede nel loro paese, i rapporti collusi tra stato e criminalità, pretendono che non restino impuniti crimini come quello di Iguala, o come le esecuzioni extragiudiziali commesse dall’esercito a Tlatlaya nel giugno del 2014. Per questo ad agosto è stato lanciato l’appello #MéxicoNosUrge: per sensibilizzare le istituzioni dei paesi che intrattengono rapporti commerciali con il Messico a prestare più attenzione alle sistematiche violazioni dei diritti umani commesse contro la popolazione civile e contro i professionisti dell’informazione.

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