Il vuoto di potere che si è aperto il 9 novembre in Perù lascia il paese senza una guida solida in uno dei momenti peggiori della sua recente democrazia, con più di 35mila morti per il covid-19 e una crisi economica che è appena cominciata. A pochi mesi dalle elezioni generali previste per l’aprile 2021, il parlamento peruviano ha approvato la destituzione del presidente Martín Vizcarra (centrista) per un presunto episodio di corruzione che risale al 2014, quando era governatore della regione di Moquegua, nel sud del paese.

Non è stato il primo tentativo di rimuovere Vizcarra dal suo incarico: già nel settembre 2019 il congresso aveva respinto una mozione per indegnità morale presentata da un gruppo di parlamentari, tra cui aveva avuto un ruolo centrale Manuel Merino (del partito di centrodestra Acción popular), presidente del parlamento e subentrato a Vizcarra subito dopo la sua destituzione.

Vizcarra, che ha fatto della lotta alla corruzione un cavallo di battaglia del suo governo, si è detto innocente e sicuro di aver fatto il proprio dovere. Di certo le accuse mosse contro di lui vanno chiarite e, se saranno confermate, l’ex presidente dovrà risponderne.

Parlamento frettoloso
Tuttavia il parlamento ha agito senza aspettare che la giustizia si muovesse: non c’è stato nessun procedimento giudiziario né un esame attento da parte della giustizia delle prove contro Vizcarra. Tra l’altro bisogna tener presente che tra i parlamentari del congresso peruviano (formato da una sola camera di 130 deputati) ben settanta sono indagati con accuse di vario genere. Quindi più della metà. Alcuni giornali hanno parlato senza giri di parole di “un colpo di stato, condotto da un gruppo di cospiratori in parlamento, con ramificazioni nel sistema giudiziario e in alcuni mezzi d’informazione, per mettere fine a vent’anni di democrazia”.

Stanchi di essere rappresentati da una classe politica corrotta – ricordiamo che nel 2018 Vizcarra aveva preso il posto di Pedro Pablo Kuczynski, coinvolto nello scandalo di corruzione lava jato (autolavaggio) e oggi agli arresti domiciliari – poco dopo l’insediamento di Merino migliaia di cittadine e cittadini sono scesi in piazza a Lima e in altre città del paese al grido di “Fuera Merino”, “Merino no nos representa”.

La rabbia popolare, la repressione violenta da parte della polizia (che ha usato proiettili di gomma e gas lacrimogeni contro i manifestanti), decine di feriti e la morte di due giovani di 22 e 24 anni per ferite da arma fuoco hanno spinto tutti i ministri del governo e Merino stesso a dimettersi il 15 novembre, dopo solo sei giorni dall’insediamento.

Processo costituente
Il 17 novembre il parlamento ha finalmente trovato un accordo su Francisco Sagasti, un ingegnere di 76 anni, del Partido morado (centrodestra) e considerato da molti una figura di consenso in grado di guidare il governo di transizione nei prossimi cinque mesi fino alle elezioni. Sagasti aveva votato contro la mozione di sfiducia di Vizcarra e, subito dopo essere stato indicato come presidente ad interim, si è rivolto ai giovani che manifestano: “L’indignazione che vediamo nelle strade va accettata e indirizzata in percorsi pacifici che aiutino il paese. Non sono bastate la pandemia, la crisi economica o la violenza. Abbiamo dovuto aspettare la morte di due giovani affinché l’enormità della crisi che stiamo vivendo ci colpisca e ci spinga a lavorare per ottenere un paese più equo”.

In attesa di un’indagine sulla violenza della polizia e sulle responsabilità del governo, le parole di Sagasti sono senz’altro un inizio. Anche se tutte le fragilità della giovane democrazia peruviana sono esplose in pochi giorni, la voce e il risveglio della piazza potrebbero aprire la strada a un processo costituente, come quello che è cominciato in Cile.

O almeno, come scrive il giornalista peruviano Marco Avilés, cominciare a colmare il divario enorme tra la popolazione e le istituzioni: “Governare un paese è un compito così delicato che cittadine e cittadini non dovrebbero affidarlo alla cieca ai politici per poi incrociare le braccia. Dopo tante delusioni, dovremmo averlo capito. Nel 2000 abbiamo avuto il coraggio di fare politica dalla piazza e abbiamo mandato a casa molti criminali, alcuni dei quali sono finiti in carcere. Poi però ci siamo ritirati nelle nostre vite private credendo che la democrazia si riformasse da sola. Così non è stato e oggi lo sappiamo. Il rimedio contro una classe politica autoritaria sarà sempre una cittadinanza attiva, piena di coraggio e immaginazione”.

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