Tra gli autori considerati di punta nell’attuale panorama letterario italiano raramente si nomina Letizia Muratori, ed è un vero peccato.

Romana, nata nel 1972, sette romanzi dal 2005 a oggi – i primi due pubblicati da Einaudi, gli altri da Adelphi – tutti di ottimo livello, in certi casi dei piccoli capolavori.

Dalla sua parte ha un pubblico di nicchia, come si dice, di lettori affezionati (soprattutto lettrici), e pochi sostenitori tra i critici che fanno opinione (Goffredo Fofi su tutti); ma non figura, per esempio, nella ricca rosa – trenta nomi – di autori selezionati per l’antologia-mappa curata da Andrea Cortellessa, La terra della prosa. Narratori degli anni zero, sebbene la sua opera rientri pienamente nella cornice cronologica del libro.

Non ha vinto nessun premio importante, anche se ci si è messa di mezzo la sfortuna: con La casa madre era finalista al Grinzane del 2009, prima che saltasse tutto.

Letizia Muratori a Torino. (Tania, A3/Contrasto)

Insomma, un’autrice che ancora in pochi conoscono e apprezzano, ma una scrittrice vera, prolifica, con uno stile proprio e riconoscibile, con un mondo da raccontare: le relazioni affettive e sentimentali, gli interni borghesi (soprattutto romani), i rituali famigliari, sociali, i loro pesanti rimossi.

Un mondo peraltro, e nonostante i non pochi rimandi che uniscono i vari libri, diversamente declinato in ogni singola opera, attraversato da innumerevoli oggetti, icone e feticci, osservato in ambienti e settori molto specifici e di per sé interessanti. La scuola elementare e le bambole Cabbage Patch Kids del primo dei due racconti di La casa madre, la fotografia e la moda degli anni cinquanta e sessanta nel meraviglioso Sole senza nessuno, la finanza e uno strano allevamento suino nel Giorno dell’indipendenza, il sesso e lo skate adolescenziale in Tu non c’entri, il suo primo romanzo.

In questi contesti scrupolosamente definiti trovano posto i temi sociali, le questioni di genere, le riflessioni storiche e metaletterarie. Ma soprattutto splende un continuo, paziente, filare parole, creare un tessuto delicato e ricco non soltanto di suoni e stili, ma di emozioni e tracce di vita che a quelle parole corrispondono con precisione sempre più accurata, di libro in libro.

Comporre “belle pagine”, senza ridondanze, esaustive ed essenziali fino a costruire “spazi inaccessibili, belli da guardare leggendo, come fossero paesaggi”, sembra questo l’obiettivo di Muratori; o almeno quello in cui si riconosce la scrittrice – e alter ego dell’autrice – protagonista di Come se niente fosse, suo penultimo romanzo in ordine di pubblicazione.

Qui la costante nota autobiografica presente in ogni libro della Muratori arriva finalmente al centro. Attraverso complesse geometrie sentimentali, ci troviamo di fronte a una riflessione sul rapporto tra scrittura e lettura e tra realtà e finzione che da sola meriterebbe più di una semplice menzione nei tanti saggi e articoli sull’argomento usciti in questi anni.

La sera stessa attaccai a scrivere quella storia in prima persona. E capii perché mi ero sempre tenuta alla larga dall’autobiografia. Non era scrivere quello, ma come rifare da capo una valigia che non si è chiusa, cercando lo spazio giusto per ogni cosa. Intorno alle quattro, quando l’intervallo di rumori isolati diventa un silenzio così attento che sembra quasi che qualcuno ti spii, buttai all’aria l’intero carico, e lasciai rifare la valigia alla sola prima persona che in fondo poteva sostituire la mia.

Nella limitata risonanza giornalistica di cui godono i suoi libri, una qualche responsabilità deve averla la non chiassosità intrinseca alla poetica della Muratori.

La pubblica discrezione dell’autrice e una finezza di sguardo e parola che forse fatica a trovare oggi il suo spazio di ascolto, nonostante una scrittura di alto profilo, una sensibilità e un’intelligenza fuori dell’ordinario.

Muratori appare sicura del proprio lavoro, poco esposta: un bestia rara. Viene da pensare a Elena Ferrante prima del grande salto (salto comunque deciso dal pubblico statunitense, non da quello italiano), autrice di romanzi già a suo tempo splendidi e maturi e amabili per un vasto pubblico come L’amore molesto o I giorni dell’abbandono, che solo in pochi conoscevano e apprezzavano – forse ancora oggi – profondamente.

Non che, con il suo ultimo romanzo Animali domestici, Letizia Muratori abbia cercato di fare il suo, di salto. Non sarà questo un nuovo L’amica geniale, non sembra neppure volerlo, ma si percepisce un investimento particolare, un tentativo da parte della scrittrice di oltrepassare la sua misura naturale, sia in termini quantitativi (i suoi romanzi precedenti non superavano quasi mai le 150 pagine) sia qualitativi.

Soprattutto la prima parte del libro presenta una densità stilistica maggiore, una tessitura più fitta, un’orchestrazione più complessa dei personaggi e delle loro vicende. La lettura ne risulta un po’ appesantita, ma a vantaggio di una superiore ricchezza e profondità di campo. Molti personaggi, molte vite, molti intrecci: forse nessun altro suo romanzo merita l’epiteto “familiare” come quest’ultimo.

E dev’essere qualcosa di più che una coincidenza se tra i romanzi più belli usciti in Italia nell’ultimo anno ricorrono storie famigliari, con i loro mai pacificati rapporti storici e generazionali: questo della Muratori, La ferocia di Nicola Lagioia, La gemella H di Giorgio Falco.

Come se per questi autori nati intorno al 1970, al di là della censura sessantottina e oltre il malmostoso integralismo familista, si potesse oggi restituire a quel “luogo” tutta l’essenzialità umana e la potenza letteraria che ne ha fatto uno dei pilastri della narrativa moderna.

Familiare, dunque, e in un senso esteso anche a quella specie di famiglia allargata che è la “cerchia sociale”, è l’ambiente in cui si muovono i personaggi di Animali domestici. Personaggi nati e cresciuti ai Parioli, quartiere storico dell’alta borghesia capitolina, come Edi Sereni, “il boss delle confidenze”, come lo definisce la narratrice: un giornalista, intellettuale eccentrico e viveur che potrebbe ricordare il Jep Gambardella della Grande bellezza, ma romano, meno caricaturale e, verrebbe da dire, più vero.

…paziente, morbido nei modi, curioso fino all’inverosimile, ma anche duro e un po’ arido al momento opportuno. Uno che conquista la fiducia di uscieri e padroni. Durante il giorno non si sapeva mai bene dove fosse. Capitava che qualche cronista scalcinato giurasse di averlo visto perdere tempo, a pranzo, con un relitto del partito monarchico, di quelli con le spillette sul bavero, mentre in qualche altra occasione Edi era stato avvistato in compagnia della vedova di un burocrate della Banca d’Italia. Insomma, quando tutti pensavano che fosse sparito nelle stanze del potere, lo si scopriva sempre e comunque altrove.

E qui le ipotesi sono due: o il potere se ne sta rintanato dove non credi che sia, oppure Sereni era sempre stato uno bravo a darla a bere. In ogni caso, verso le sette di sera, cascasse il mondo, si presentava al giornale. Ad attenderlo c’era un caposervizio tenuto in apnea: prima di farlo fiatare, Edi si sfilava le scarpe, poi i calzini e a piedi nudi tirava fuori le sue notizie. A furia di spargere fumo e veleno, vincendo scommesse che molti davano perse in partenza, si era costruito una bella carriera, finché nel 2008 non gli era venuto un infarto.

Durante la convalescenza, i suoi nemici ne avevano approfittato per farlo fuori. Non aveva reagito. Era nella sua natura assecondare certi eventi quando arrivava il momento di cambiare pelle. Così Edi aveva lasciato il giornale, per rispuntare un po’ ovunque nei panni dell’opinionista che ne ha viste tante. Da lui, infatti, si pretendevano spesso pronostici sulle imperscrutabili vicende politiche del paese, e la sua specialità era leggerle senza scomporsi alla luce di precedenti storici. Di solito non azzeccava una previsione che fosse una, però recitava bene la sua parte. Dopo l’infarto non si era abbattuto, anzi, aveva ritirato fuori la verve del nomade sardonico che era sempre stato.

Se scrivi nomade sardonico – mi ha messa in guardia di recente – ti ridono dietro. Metterti in guardia, riportarti coi piedi per terra, non esporsi al ridicolo sono sempre stati i capisaldi dell’ammaestramento continuo cui ti sottoponeva se gli andavi a genio. Un po’ tutti gli andavano a genio, non si poteva dire che fosse selettivo. E se te la passavi male, se eri in difficoltà, allora potevi contare sul suo appoggio morale, e su nient’altro. Edi aveva il culto dell’abilità, di volta in volta ti forniva gli strumenti per metterla alla prova. Mai aveva favorito qualcuno, sul fronte della correttezza era inattaccabile.

Ciò non toglie che si occupasse dalla mattina alla sera di quisquilie tattiche e sempre si rivelava una fonte molto attendibile di indiscrezioni, da quelle grosse ad altre, infime, cui dava pari importanza. Apparentemente defilato, ma in moto perpetuo per tutte le province d’Italia, Edi Sereni era ancora Edi Sereni: il boss delle confidenze.

La lunga citazione è per rendere merito a come, in Animali domestici, Letizia Muratori abbia perfezionato la sua tecnica del ritratto letterario fino a portarla a un livello raffinatissimo.

Tutti i personaggi, maggiori e minori, si staccano dalla pagina con una felicità e una facilità straordinaria.

Almas, la scorbutica e misantropa domestica eritrea che ha vissuto per trent’anni con la famiglia della narratrice tendendo un filo di rancore tra le vicende familiari e la storia coloniale italiana; Luca, il primo giovane e sfuggente marito della protagonista alla cui perdizione nell’eroina si oppone il perbenismo autoingannevole della moglie (“avevo sposato me stessa grazie a quel marito attento che aveva sposato se stesso grazie a quella moglie distratta. Il nostro, ora lo sapevo per certo, era un bel matrimonio”); Tullio, il suo editor geloso (anche qui, come nel romanzo precedente, la narratrice è una scrittrice); Simonetta e Chiara, compagne di scorribande infantili, tra discoteche pomeridiane e un goffo ribellismo adolescenziale da figlie di papà (“Quella sera io e Chiara avevamo deciso di fare le punk. Andava, nel 1986: il punk, tra le salite e le discese delle nostre quattro vie, era considerato una bella maschera”).

Chiara è forse il personaggio più toccante del libro, l’emblema del rifiuto eccentrico del milieu alto borghese, figlia dell’imprevedibile Edi Sereni, già da bambina incline a uno smodato culto della natura (“Quella fronte larga era piena di slanci e priva di curiosità: la fronte assoluta di Heidi”), da adulta fuggita in campagna per vivere in mezzo ai suoi molti cani e gatti come una vecchia canara. Un personaggio commovente perché disarmato, e in fondo tragico, come d’altronde appaiono un po’ tutti agli occhi della narratrice, compresa se stessa.

Sono gli “animali domestici” e addomesticati del titolo, forniti di una straripante vita interiore, sospesi tra la fatalità di appartenere al proprio mondo e il rimorso di non poterne fare a meno:

Chissà da quanto sono morta perdendo tempo in attività di prevenzione? Morta evitando rotaie, serrando porte, controllando caldaie e conti bancari, pagando multe e bollette. Non sono mai stata derubata, né mi sono persa, in compenso sono morta perché non ho badato a prevenire me stessa e la mia idea del pericolo che viene solo da fuori, è esterno, mi ha ucciso l’infingardaggine pavida e mesta di animale domestico.

In questi tempi che iperrappresentano la crisi e il diffuso malessere sociale, curiosamente, non sembrano però mancare alla nostra narrativa storie di ricchi (e spesso anche ricchissimi: Alessandro Piperno, Teresa Ciabatti o Giordano Tedoldi, per fare i primi nomi che vengono in mente), e altrettanto potrebbe dirsi per il cinema (De Matteo, Virzì…).

Si tratta forse di una reazione alla proliferazione di letteratura “civile”, incentrata sul lavoro e la precarietà, o al localismo popolare piuttosto diffuso negli anni duemila. Comunque sia, il libro della Muratori ha qualcosa che trascende l’occasione sociale da cui nasce. Un tratto che incanta e uno sguardo a cui è difficile non affezionarsi: la precisione e finezza di certe immagini, di certi dialoghi, il fluire continuo e quasi ipnotico del tempo che si muove tra ellissi e flashback, il tatto e la levità ironica con cui sono affrontati i destini personali.

Tutto questo sarà forse molto adeguato alla descrizione minuziosa di un’ambiente particolare, nella misura in cui non è apertamente rinnegato, né sadicamente sottoposto a demolizione come spesso succede tra figli della borghesia. Ma soprattutto è occasione per un bellissimo ritratto di una relativa normalità. E quella, in fondo, appartiene a tutti.

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