La lotta degli abitanti del quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme contro gli sgomberi forzati operati dalle forze israeliane ha creato un momentum: è tempo di ascoltare queste nuove voci palestinesi in cerca di unità e dignità, che parlano con un tono molto libero e rifiutano le affiliazioni politiche.
A Gaza, il bombardamento israeliano della torre residenziale Al Jalaa, che ospitava le redazioni dell’Associated Press e di Al Jazeera, preceduto due giorni prima dal bombardamento della torre Al Shorouq, che ospitava altri sette mezzi d’informazione locali e internazionali, ha portato a un totale di 23 sedi giornalistiche distrutte nel giro di una settimana dall’esercito israeliano, denuncia Reporters sans frontières.
Con meno di tre ore di elettricità al giorno e la maggior parte delle infrastrutture dei provider di internet distrutta, Gaza – e i suoi due milioni di abitanti – ha perso la voce, scrive l’attivista per i diritti umani Mustafa Ibrahim nella sua lettera da Gaza, pubblicata dal sito Daraj. Ibrahim descrive il suo terrore durante i bombardamenti, scusandosi per l’editing del suo testo mentre il suo computer si spegne per mancanza di elettricità.
Gli abitanti della Striscia, i gazawi, si sono così impossessati, per quanto possibile, dei social network per raccontare l’inferno che stanno vivendo tra i bombardamenti e la pandemia. I sopravvissuti raccontano gli ultimi minuti con i loro cari: un ragazzo voleva chiedere la sua fidanzata Shaima in matrimonio poche ore prima di perderla nel bombardamento; un padre di famiglia filma la stanza da letto mentre i bambini si svegliano per il rumore delle bombe.
Molti utilizzano i social network per consegnare le loro ultime parole, come riporta il sito +972 Magazine: un ragazzo di Gaza chiede perdono per le offese fatte, un altro dice di azzerare i conti dei suoi debitori. Altri fanno le liste dei morti con nomi e cognomi, nell’ultimo tentativo di umanizzare i defunti: si leggono i necrologi di medici, del più importante specialista di covid di Gaza e di almeno 48 bambini.
Questa nuova generazione padroneggia i codici culturali occidentali e sta tentando di cambiare la narrativa dei mezzi di comunicazione
Ma se gli abitanti di Gaza provano nell’emergenza a rendere leggibile dall’esterno la loro esistenza, le parole sono usate anche per creare un “nuovo dizionario che racconti il trauma mentale ed emotivo che viviamo, la distruzione che ci circonda”, spiega Abier al Masri, ricercatrice di Human rights watch residente a Gaza. Questo nuovo vocabolario si sta facendo strada in una nuova narrativa di palestinesi che lottano per i loro diritti a Gerusalemme e in Cisgiordania.
La terribile guerra di Gaza non deve tuttavia nascondere il ruolo centrale che riveste Gerusalemme per questo nuovo movimento di protesta pacifico che cerca l’unità di tutti i palestinesi – palestinesi d’Israele, residenti dei territori occupati, rifugiati in Giordania o in Libano, nonché la diaspora sparsa per il mondo – dando luce a nuovi input intellettuali e politici, come testimoniano lo sciopero generale del 18 maggio in tutte le città della Cisgiordania e le grandi manifestazioni pacifiche a sostegno della Palestina nel mondo.
La chiave del futuro
Il contrattacco palestinese si rivela prima di tutto nella presenza di attivisti e intellettuali nelle tv statunitensi. Intervistati dalla Cnn e dalla Cbs rifiutano di piegarsi all’esercizio della “simmetria”, cioè alla condanna che equipara le due parti del conflitto. La loro strategia ricorda molto quella del movimento Black lives matter. Sulla Cnn, Mohamed al Kurd, un giovane poeta palestinese che appartiene a una delle quattro famiglie che resistono agli sgomberi forzati nel quartiere di Sheikh Jarrah, si è rifiutato di condannare le proteste di chi sostiene le famiglie palestinesi. Mohamed risponde chiedendo all’intervistatrice: “E lei condanna lo sgombero violento della mia famiglia da casa nostra?”. Silenzio imbarazzato della giornalista. La notte successiva all’intervista, Mohamed al Kurd è stato arrestato in casa dalle forze di sicurezza israeliane.
Questa nuova generazione tra diaspora e Cisgiordania parla benissimo l’inglese, padroneggia i codici culturali occidentali e sta tentando di cambiare la narrativa dei mezzi di comunicazione occidentali e soprattutto statunitensi, perché l’appoggio statunitense alla politica di Benjamin Netanyahu è la chiave del loro futuro. Pochissima attenzione, giustamente, dedicano alla silenziosa Europa.
È anche una nuova generazione di palestinesi che sa di dover combattere da sola, spiega il ricercatore Mouin Rabbani: abbandonati dalla comunità internazionale che rinnega, quando si tratta di Palestina, anche i princìpi basilari del diritto umanitario e internazionale, recentemente abbandonati anche dai paesi arabi che hanno accettato la normalizzazione del piano Trump, ora hanno conquistato una certa libertà di azione e di espressione.
Mariam Barghouti, ricercatrice palestinese, una delle voci più ascoltate di questa nuova generazione, spiega la forza di questo movimento anche con la consapevolezza di non avere più niente da perdere: “Questa generazione non vuole solo criticare la copertura mediatica, intende rovesciare decenni di negazioni: apartheid, colonialismo, occupazione, repressione militare. Non riusciamo più a respirare, e l’ultima cosa che ci è rimasta è che il mondo ci accetti per quel che siamo”.
Recuperare la narrativa storica
Questa nuova narrazione palestinese esiste da decenni, ma gli eventi di Sheikh Jarrah creano le condizioni per sentirla nella sua complessità.
Innanzitutto, ricorda il sito di approfondimento Raseef22, questo periodo corrisponde all’anniversario della nakba del 1948, quando 250mila palestinesi – la metà della popolazione della Palestina storica – furono sgomberati dalle loro case. Se il mondo ha dimenticato, il trauma è ancora molto presente nella psiche palestinese, e anche nel mondo digitale si stanno organizzando per ricordarlo, scrive Saeed Amouri: “I palestinesi che nel 1948 sono stati cancellati dalla carta geografica, ora si stanno organizzando per digitalizzare la loro storia e, in un certo modo, scriverla”. Dopo la nakba, lo stato israeliano ha costruito la sua storia sulla narrativa del sionismo, che unisce tutti gli ebrei israeliani, mentre “finora i palestinesi non erano ancora riusciti a produrre una storia unita del loro popolo. Questo sta cambiando”.
Diversi progetti storici ambiziosi come il Palestine digital activism aorum del 7amleh Center o ancora il sito Untold Palestine hanno cominciato a digitalizzare la memoria palestinese, per poterla raccontare, ma anche creare un legame tra “i palestinesi di Gerusalemme, Cisgiordania, Gaza e l’importante diaspora palestinese”. Salim Abu Zahir, direttore del progetto Palestinian museum digital archive presso il Palestinian museum, a Bir Zeit, ha digitalizzato quasi duecentomila documenti dal 2018, per “creare una nuova prospettiva che rafforzi un’identità nazionale inclusiva”.
Suicidio morale
Su un altro sito di approfondimento, Arabi 48, Gad Qadan, un dottorando palestinese all’università di Tel Aviv, spiega quanto sia importante riuscire a rovesciare la narrazione odierna sul conflitto, anche per gli stessi israeliani: “Quello che sta accadendo in Palestina oggi mostra quanto l’occupazione abbia un prezzo morale molto alto che non lascia indenne la società occupante. Questa mentalità patologica è evidente nelle strade e nei mezzi di comunicazione israeliani. La chiamerei ‘isteria di massa’, un movimento in cui un consistente gruppo di persone perde il contatto con la realtà e vive secondo la propria logica di illogicità totale”.
“I gruppi che non conoscono la loro storia si somigliano”, continua Qadan. “Se i gruppi dell’estrema destra israeliana avessero più cultura storica, si vergognerebbero della strana similitudine tra le loro azioni attuali e ciò che i loro antenati hanno affrontato nella Germania nazista durante la notte dei cristalli. La scena di cento ebrei che tentano il linciaggio di un arabo a Bat Yam solo perché arabo è orribile, e spiega come la costruzione del nemico sotto l’occupazione finisca per far dimenticare la sua umanità”.
L’uso dei social network non è sempre facile per i palestinesi. Molti account degli attivisti di Sheikh Jarrah sono stati chiusi mentre erano in diretta streaming. La presa di posizione di Bella Hadid – la modella statunitense di origine palestinese che ha postato sul suo account Instagram seguito da 42 milioni di persone le foto della sua partecipazione alla manifestazione per la Palestina – è stata accompagnata da molte critiche. È invece essenziale ricordare l’importanza dell’attivismo delle donne palestinesi e la creatività digitale dei giovani manifestanti, che hanno saputo replicare e distribuire su diverse piattaforme – con meme o video su TikTok – le proprie rivendicazioni.
Negli Stati Uniti, dalle tv nazionali ai think tank di Washington, dall’aula del congresso alle proteste di strada a Boston, Chicago, New York, Los Angeles, Washington e perfino Miami, Porto Rico, Cleveland e Oklahoma, “il dibattito sta cambiando”, spiega il sito americano Prospect. “Lontano dalle difese del ‘diritto di Israele a esistere’, dalle accuse di ‘terrorismo’ e ‘antisemitismo’ si fa strada un nuovo riconoscimento dei diritti dei palestinesi”.
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