Dal 2011, in seguito alla brutale repressione della rivoluzione siriana, i paesi occidentali e arabi hanno rotto tutti i canali diplomatici con il regime di Bashar al Assad. La Siria è stata sospesa dalla Lega araba nello stesso anno. Sostenuto militarmente da Teheran e Mosca, il regime siriano è anche stato isolato economicamente da forti sanzioni statunitensi tramite il Caesar act.
In parallelo, la guerra civile veniva prontamente alimentata da numerosi attori esterni trasformandosi in una guerra per procura portata avanti dall’Iran, dalla Turchia e da molti paesi arabi, mentre gli Stati Uniti intervenivano contro il gruppo Stato islamico e la Russia entrava in guerra nel 2015 a sostegno del regime che stava perdendo terreno. Ora, con l’arrivo degli aiuti umanitari per le popolazioni colpite dal sisma del 6 febbraio, si sta profilando una nuova guerra di posizione sulle macerie del paese.
Dopo dodici anni di guerra, circa 13 milioni di persone – più della metà della popolazione – hanno dovuto lasciare le loro case mentre il 90 per cento dei siriani rimasti nel paese vive sotto la soglia di povertà. Poi è arrivato il terremoto, che è costato la vita a più di cinquantamila persone tra Siria e Turchia.
“La situazione qui prima del terremoto era orribile”, spiega Joe English, portavoce dell’Unicef. “Ce ne siamo dimenticati per dodici anni, ma nell’ultimo anno il bisogno umanitario in Siria ha raggiunto il livello più alto”. Lo ha ammesso in un tweet anche il sottosegretario generale delle Nazioni Unite, Martin Griffiths: “Finora abbiamo deluso le persone nel nordovest della Siria. Si sentono giustamente abbandonate. Hanno aspettato un aiuto internazionale che non è arrivato”.
Se i paesi occidentali sono impegnati in altri conflitti, per i paesi arabi la guerra per procura continua tramite una “guerra degli aiuti” e la ricerca di una nuova influenza sulla Siria. Nel suo articolo, che analizza la provenienza degli aiuti per i terremotati di Siria e Turchia, il giornale siriano indipendente Ennab Baladi nota un forte aumento della presenza dei paesi del golfo Persico, a livello sia umanitario sia politico.
Ritorno in scena
“La Siria non è più una priorità, rispetto al periodo 2011-2019”, riassumeva il think tank Stimson a novembre. “In quel periodo i tre grandi paesi del Golfo temevano la diffusione di gruppi armati e terroristici, nonché la crescente influenza dell’Iran in Siria. Avevano già smesso di sostenere militarmente l’opposizione per forzare un cambiamento a Damasco dall’intervento russo nel 2015”. Con il terremoto, quesi paesi stanno tornando in scena in Siria.
Il Qatar ha stabilito un ponte aereo con la Turchia per trasportare gli aiuti umanitari, tra cui ci sono anche diecimila case mobili, fin dal primo giorno dopo il terremoto, per un ammontare di circa 70 milioni di dollari, sottolinea l’emittente qatariota Al Jazeera. L’emiro del Qatar è stato, il 12 febbraio, il primo capo di stato a fare una visita ufficiale al presidente turco Recep Tayyip Erdoğan.
Nel febbraio del 2012, gli Emirati Arabi Uniti e gli altri cinque paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, Bahrein, Kuwait, Oman e Qatar) avevano denunciato in un comunicato stampa congiunto il “massacro del suo popolo” perpetrato dal regime di Assad. L’agenzia di stampa degli Emirati (Wam) sottolinea ora l’intensificazione dell’aiuto proveniente da Abu Dhabi con decine di voli al giorno nelle aree controllate dal regime per consegnare tonnellate di aiuti per le popolazioni colpite. Attraverso la piattaforma Sahem, l’Arabia Saudita ha invece spedito più di 117 milioni di dollari di aiuti, secondo il quotidiano saudita Okaz.
Un nuovo approccio
In seguito, il presidente Assad è andato per la sua seconda visita fuori del paese dopo dodici anni nel sultanato di Oman, conosciuto per il suo ruolo di mediatore nella regione. Sono andati a Damasco per la prima volta dall’inizio della guerra civile il ministro degli esteri egiziano e quello giordano. Ma il vero cambiamento viene da Riyadh: il ministro degli esteri saudita, il principe Faisal bin Farhan al Saud, ha spiegato in un intervento filmato da Al Arabiya che “non solo nel Consiglio di cooperazione del Golfo ma nell’intero mondo arabo c’è un crescente consenso sul fatto che lo status quo non è più sostenibile” e che il nuovo approccio “dovrà passare a un certo punto attraverso il dialogo con il governo di Damasco”.
In parallelo, l’impegno umanitario dell’Iran è largamente pubblicizzato negli organi ufficiali della repubblica islamica come il quotidiano Al Watan, un modo per ricordare che Teheran, le Forze di mobilitazione popolare in Iraq, Hezbollah in Libano e altre entità filoiraniane “sono al servizio del popolo siriano”.
Normalizzare i rapporti con Assad per i paesi arabi significa provare a spezzare il suo legame con Teheran, malgrado le sanzioni e la corruzione endemica del regime siriano. Secondo il rapporto annuale 2022 di Transparency International, che monitora i casi di corruzione in 180 paesi del mondo, la Siria è al 178° posto. In una caricatura del disegnatore Emad Hajjaj Assad che riassume il dilemma, il presidente siriano munge sorridente la mucca degli aiuti umanitari.
La famiglia Assad può contare su diverse ong per controllare gli aiuti, in particolare sulla Mezzaluna rossa, che ha sempre intrattenuto rapporti con il regime, e sul Syrian trust development, controllato dalla moglie del presidente, Asma al Assad, e considerato uno dei progetti di pubbliche relazioni del regime con la comunità internazionale. Lo scrive per esempio uno studio sul ruolo della filantropia nella guerra siriana pubblicato dall’European university institute.
Anche se per l’economista siriano Abdel Nasser al Jassem, professore all’Università di Mardin, “a breve termine i guadagni del regime sono maggiori a livello politico che a livello economico”, nel lungo termine il regime di Assad può cominciare a immaginare il suo rientro nella Lega araba e sulla scena internazionale e così coinvolgere i paesi del Golfo nella questione della ricostruzione del paese, che da solo non è in grado di finanziare.
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