Due giorni fa, la legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita è tornata davanti ai giudici. Questa volta alla corte costituzionale è stato chiesto di valutare l’incostituzionalità del limite d’accesso alle tecniche riproduttive, consentito “solo quando sia accertata l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione ed è comunque circoscritto ai casi di sterilità o di infertilità inspiegate documentate da atto medico nonché ai casi di sterilità o di infertilità da causa accertata e certificata da atto medico” (articolo 4, comma 1).
È l’ennesimo divieto irragionevole e insostenibile della legge 40 a essere sottoposto al giudizio di un tribunale. La corte ha rimandato i lavori alla settimana del 27 aprile.
Che cosa è stato contestato a questo requisito d’accesso? È stata contestata la violazione del diritto alla riproduzione cosciente e responsabile, all’autodeterminazione, alla possibilità di costituire una famiglia, alla salute della donna e della coppia, alla non discriminazione.
Il divieto di accedere alle tecniche e alla diagnosi genetica di preimpianto per chi non è affetto da sterilità, ma “solo” da una patologia trasmissibile, è un’irragionevole e sproporzionata compressione di un diritto soggettivo fondamentale e personale, un’illegittima interferenza nelle decisioni degli individui e una violazione del principio di parità di trattamento in condizioni analoghe. È abbastanza impressionante per un solo comma. Come si è arrivati fin qui?
Più di dieci anni fa la legge 40 ha stabilito che le tecniche riproduttive dovessero essere accessibili solo alle persone sterili o infertili, escludendo le persone fertili ma portatrici di patologie genetiche o di anomalie cromosomiche.
Una legge ha così vietato, senza alcuna ragione sensata, l’accesso a una tecnica disponibile e in grado di evitare la trasmissione di una malattia: la diagnosi genetica di preimpianto (Dgp), che permette di rilevare la presenza di alterazioni genetiche e cromosomiche negli embrioni prodotti in laboratorio e prima che siano impiantati. Vietando questa possibilità, la legge 40 ha negato a tante persone un’alternativa molto precoce alle diagnosi prenatali e a un eventuale aborto.
Il verbo giusto è scegliere, non vietare. Non imporre a tutti qualcosa di irrazionale e moralmente ripugnante
Come siamo arrivati alla corte costituzionale? Tramite il ricorso a vari tribunali e nel 2012 perfino alla Corte europea dei diritti umani, che ha condannato l’Italia nel caso Costa e Pavan: “Stante l’incoerenza del sistema legislativo italiano in materia di diagnosi preimpianto nel senso sopra descritto, la Corte ritiene che l’ingerenza nel diritto dei ricorrenti al rispetto della loro vita privata e familiare sia stata sproporzionata. Pertanto, l’articolo 8 della Convenzione è stato violato nel caso di specie”.
Tutti questi ricorsi sono storie di diritti negati e di rara insensatezza giuridica e morale. E questo perché?
Perché dal 2004 è vietato fare ricorso a una specifica tecnica (quella genetica di preimpianto), ma è permesso accedere a tecniche analoghe (quella osservazionale e quelle prenatali).
Perché questo divieto viola alcuni articoli della costituzione italiana, come il diritto alla salute e alle scelte riproduttive e alla non discriminazione, e gli articoli 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti umani che ribadiscono gli stessi princìpi.
Perché in questo modo si discrimina chi è portatore di una patologia: come si può giustificare l’esclusione di alcuni individui perché malati? Perché ci dovrebbe essere un divieto del genere? Cosa pensassero gli estensori della legge 40, e i suoi sostenitori, rimarrà sempre un mistero.
Perché si impedisce di scegliere come evitare la trasmissione di patologie perlopiù gravissime – come la Corea di Huntington, la fibrosi cistica, la talassemia – e si fa finta di non sapere che chi non vuole correre questo rischio se ne andrà altrove oppure abortirà. I costi individuali e collettivi saranno maggiori (l’amniocentesi è a carico del sistema sanitario nazionale per le donne con più di 35 anni). E si porrà una questione morale davvero complessa, per chi abortisce un figlio voluto, al quarto o quinto mese di gravidanza, e anche per il feto: è meglio non impiantare un embrione o interrompere lo sviluppo di un feto di quattro o cinque mesi?
Perché si vieta il ricorso a una “indagine prenatale” avanzata e precocissima, rifiutando perciò tutte le tecniche che ci migliorano la vita.
Perché la Dgp è una di queste: una tecnica che migliora la vita e che non danneggia nessuno. Chi pensa che un embrione prodotto in laboratorio abbia dei diritti fondamentali, dovrebbe combattere per abolire tutte le tecniche riproduttive e tutte le diagnosi prenatali, e non solo una perché magari non ha capito ancora bene di cosa si tratta.
Chi invoca l’eugenetica dovrebbe ricordarsi che non stiamo parlando delle politiche naziste o sovraindividuali, che sacrificavano i diritti dei singoli in nome del bene del “tutto”, né di nulla di simile, ma di una scelta riproduttiva come molte altre legalmente permesse e moralmente ammissibili. Se la Dgp è “eugenetica” lo sono anche le diagnosi prenatali: vogliamo vietare anche queste? Vogliamo forse tornare al mistero della riproduzione, magari a quando i neonati morivano in percentuali altissime e il parto era molto rischioso? Bei tempi quelli, che nostalgia!
Perché Valentina e Fabrizio, promotori di uno dei procedimenti civili, senza la legge 40 avrebbero potuto scegliere se e come avere figli e se fare ricorso a una specifica tecnica. Con la legge 40 hanno tentato senza tecniche, Valentina è rimasta incinta e dopo un’indagine prenatale ha scoperto che il feto era malato. Ha abortito, correndo rischi non necessari e vivendo un dolore evitabile. Come Maria Cristina e Armando e tantissime altre persone.
Perché non impiantare un embrione deve essere considerato almeno analogo all’aborto, permesso dalla legge italiana a tutela del preminente diritto alla salute della gestante: non sarebbe del tutto irragionevole vietare di anticipare la possibilità di evitare la trasmissione di una malattia, eliminando così i rischi fisici e psicologici di un aborto tardivo?
E per quale ragione si dovrebbe essere costretti ad avviare una gravidanza, portarla avanti per mesi, sottoporsi a un’indagine prenatale e poi eventualmente abortire? Lo si può scegliere, si può anche scegliere di non interrompere quella gravidanza, si può perfino decidere di non rischiare. Ma il verbo giusto è scegliere, non vietare. Non imporre a tutti qualcosa di irrazionale e moralmente ripugnante.
Possiamo solo confidare nella saggezza della corte, con la speranza che sarà ribadito questo concetto abbastanza elementare calpestato ciecamente dalla legge 40, ristabilendo così un principio giusto e giuridicamente coerente.
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