Tra i film che nel 1946 vinsero il festival di Cannes – ci fu una cerimonia ecumenica postbellica, che premiò anche Roma città aperta di Roberto Rossellini – va citato anche Spasimo, diretto da Alf Sjöberg e scritto da Ingmar Bergman. Spasimo è una pellicola sulla scuola, che mette in scena il rapporto tragico fra un professore autoritario con simpatie naziste e uno studente coraggioso che si ribella ai suoi metodi. Già nel primissimo dopoguerra Sjöberg e Bergman riuscirono a mettere in luce come i sistemi di educazione autoritari avessero favorito l’avvento dei fascismi, ma possiamo anche prendere Spasimo come un film paradigmatico del cinema che mette in scena la scuola: ogni volta abbiamo a che fare con un dramma che contrappone chi vuole educare per dominare qualcuno e chi vuole farlo per liberarlo.
Nei saggi che hanno esplorato la storia della scuola attraverso le immagini, come Visual history. Images of education, di Ulrike Mietzner, Kevin Myers e Nick Peim, viene fuori in modo molto netto come rappresentazione e istituzione si siano rispecchiate a vicenda nell’evoluzione mondiale del sistema scolastico. Del resto ognuno di noi ha avuto, da studente o educatore, modelli scolastici anche cinematografici a cui appassionarsi o da rifiutare, che sono diventati addirittura iconici, dalla signorina Rottermeier al professor Keating di L’attimo fuggente.
Quando andiamo a vedere un film che parla di scuola, e ambientato in una scuola, sappiamo già cosa aspettarci: un conflitto. Tra docenti e studenti, tra dirigenti e docenti, tra studenti e studenti, qualcosa che nell’equilibrio della comunità educante si spezza e fa deflagrare un dissidio latente, che non è mai solo della scuola o di quella scuola, ma di un mondo più grande di cui la scuola, com’è facile riconoscere, è solo una metonimia.
Succede anche con La sala professori di İlker Çatak. In un buon istituto tedesco, la professoressa Carla Nowak (Leonie Benesch, un’interpretazione di precisione chirurgica) insegna matematica ed educazione fisica a una seconda media: è preparata, coinvolgente, amata, usa una maieutica che ogni volta va a segno con gli studenti. L’innesco della deflagrazione del conflitto è un piccolo consiglio disciplinare – nel quale sono chiamati a discutere anche due studenti rappresentanti di classe – convocato per scoprire chi è responsabile di alcuni piccoli furti che avvengono a scuola.
Da lì comincia la battaglia, prima sorda, poi fragorosa. I metodi che ognuno adotta per risolvere il problema sono diversi: la dirigente ci tiene a ribadire il valore della “tolleranza zero”, che la scuola ha scelto di applicare ai casi controversi; gli studenti e i genitori mostrano le loro ipotesi, che nascondono antipatie e idiosincrasie; Nowak cerca di gestire in autonomia la vicenda; altri colleghi convincono gli studenti a dire a mezza bocca chi sono i colpevoli e ipotizzano interventi della polizia. Come fare a educare alla giustizia e alla legalità quando i riferimenti alla legalità e alla giustizia sono in contrasto perfino tra gli adulti?
Si scatena così un dramma costruito con una sceneggiatura talmente ben annodata nei suoi passaggi da somigliare a un algoritmo morale. In un paio di scene Nowak rivela proprio come l’insegnamento delle sue materie, matematica ed educazione fisica, sia modellato secondo una didattica costruttivista, ossia usando la collaborazione per costruire lezioni che siano delle scoperte e delle ricerche collettive.
Ma il metodo della professoressa, la sua tenacia, la sua energia nello scoprire la verità sui furti e, al tempo stesso, nel tenere insieme la comunità educante, orientandola verso valori progressisti, di educazione alla democrazia, deve tenere a distanza, in ogni scena con più intensità, un fuoco incrociato di istanze difensive, rivendicative, personalistiche, di gruppo, corporative: la comunità educante si trasforma in guerriglia educante.
I rapporti cordiali diventano feroci, il giornale scolastico le fa un’intervista che impone una sua versione dei fatti e somiglia a una manipolazione, il collegio docenti diventa un processo permanente alle intenzioni, nel consiglio di classe i genitori si schierano come un plotone di esecuzione.
Per chi insegna o per i genitori questi momenti del film sono particolarmente toccanti e dolorosi. Se non nel modo paradossale, estremo di La sala professori, questo genere di scene sono la routine di ogni vita scolastica. Vedere lacerarsi man mano la trama della fiducia collettiva della classe o della scuola è uno spettacolo drammatico, esiziale, che lascia feriti. Accuse, incomprensioni, ingiustizie, punizioni esemplari che non portano a un granché, reprimende: molti di noi sanno come i contesti scolastici possono trasformarsi di frequente in arene di conflitti che s’infiammano, con escalation repressive e paternalismo apparentemente inarrestabili.
Mentre vediamo La sala professori speriamo che nella scena successiva la situazione si calmi, che qualcosa si aggiusti, e invece – incalzati dalla colonna sonora esplicitamente thriller di Marvin Miller – quel contrasto esplode e annichilisce ogni speranza, prima nel sistema e poi perfino nelle persone che consideravamo alleate: dal piano educativo si passa al sociale, dal sociale al giuridico, e l’episodio ormai si perde in una serie di fatti, sempre più difficile da recuperare. Una volta che una sanzione non produce l’effetto desiderato, spesso si innesca una specie di circolo vizioso che aggiunge extrema ratio a extrema ratio, fino a mettere in discussione l’idea stessa di relazione educativa.
Quante volte in classe, rispetto a dei ragazzi e di fronte a quello che consideriamo un errore, una mancanza, sentiamo dire, o pronunciamo noi stessi: “Eh, ma lo devono capire!”. E se non lo capiscono? Se i metodi che consideravamo efficaci non funzionano, se quel contesto che pensavamo fosse riconosciuto come autorevole ed educativo non lo è, che si fa?
Qui bisognerebbe fare spoiler su un pezzo di film. Molti critici hanno trovato il finale di La sala professori non solo aperto ma opaco ed evanescente, come se sfilacciasse con un allentamento dell’ordito la tessitura perfetta cucita dall’inizio. In realtà, pian piano che la vicenda va avanti e la crisi si amplifica e approfondisce, si crea un doppio movimento: l’istituzione scolastica mostra la sua ombra e il film diventa un’opera non più sulla scuola ma sul mondo, ossia sul potere. Quale è la funzione della scuola? A cosa si educa? A imparare a dominare o a liberare? Per riprodurre la struttura del potere già esistente o per metterla in discussione fino a distruggerla e a pensarne una nuova?
Allora, come capita nelle migliori relazioni educative, la vera sfida è se veramente il vecchio è disposto a lasciare campo al nuovo, se veramente quell’autonomia che noi adulti proclamiamo sempre come orizzonte di senso, possa comprendere un’accettazione radicale del fatto che noi adulti possiamo fallire, fallire del tutto, anche e soprattutto nel nostro progetto educativo. E questo a volte non è per niente un male, anzi spesso è l’esito migliore che possiamo augurarci per crescere anche da adulti.
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