Le immagini dei 12 ragazzi rimasti intrappolati in un reticolo di grotte in Thailandia insieme al loro allenatore ha inondato i nostri schermi negli ultimi giorni.
È in corso un’operazione di salvataggio internazionale e, a sottolineare la gravità della situazione, un sub della marina tailandese è morto dopo essere rimasto senza ossigeno durante le operazioni.
Si tratta indubbiamente di una situazione spaventosa per i ragazzi e per le loro famiglie. Non sorprende che la situazione abbia ricevuto attenzione da parte dei mezzi d’informazione di tutto il mondo. Essa però solleva alcune interessanti questioni sul modo in cui rivolgiamo la nostra empatia e la nostra preoccupazione alle persone che non conosciamo.
Perché questa tragedia attira l’attenzione del mondo, mentre per questioni di lungo periodo – come quella dei bambini messi in carcere – non avviene altrettanto? Alcune ricerche svolte in ambito di psicologia ed etica possono aiutarci a capirlo.
Da vicino
Uno dei motivi chiave è che semplicemente siamo in grado di vedere cosa succede ai ragazzini della squadra di calcio tailandese. Seguiamo le operazioni di salvataggio proprio mentre si svolgono, e possiamo vedere le emozioni dei ragazzi e delle loro famiglie.
Abbiamo già assistito di recente a questo genere di copertura, virale e a tutto campo, di tragici eventi. Per esempio le orribili scene dei bambini che lottavano per sopravvivere durante gli attacchi chimici in Siria.
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— BBC News (UK) (@BBCNews) ?
O le sconvolgenti immagini, apparse a giugno, di una bambina dell’Honduras che piangeva mentre sua madre veniva arrestata dalle forze dell’ordine al confine tra gli Stati Uniti e il Messico.
Al contrario, questioni che sono forse altrettanto agghiaccianti non generano sempre le stesse reazioni di preoccupazione ed empatia. Per esempio gli oltre duecento bambini incarcerati a Nauru e in tutto il territorio dell’Australia continentale.
Il fatto è che abbiamo scarsissimo accesso alle immagini dei bambini detenuti, poiché l’accesso dei mezzi d’informazione all’isola di Manus e a Nauru è pesantemente limitato. Semplicemente non ci è permesso osservare la sofferenza dei bambini profughi, e se non li vediamo è molto meno probabile che sorga in noi una risposta empatica.
Il tempo e le prospettive hanno un peso
Anche la prospettiva che adottiamo cambia profondamente le cose. Se possiamo facilmente fare un paragone tra noi stessi e le persone in difficoltà è più facile provare preoccupazione ed empatia.
Dati la geografia e il clima dell’Australia, per esempio, non è molto difficile per gli australiani immaginare dei bambini vittime di un disastro naturale. È invece molto più difficile immaginare che i bambini australiani scappino dal loro paese e cerchino asilo in un paese straniero.
Inoltre è molto più facile provare empatia per una situazione che, in un modo o nell’altro, avrà fine. Le questioni umanitarie come i richiedenti asilo o la mancanza di cibo nel continente africano appaiono problemi immensi, spesso impossibili da risolvere definitivamente. Simili questioni, quindi, scompaiono di fronte a quelli che consideriamo problemi più urgenti e di più immediata soluzione.
Anche il modo in cui definiamo le persone è fondamentale nel determinare la nostra risposta.
Nel 2016, per esempio, l’allora primo ministro australiano Tony Abbott aveva parlato dei richiedenti asilo come di una forza d’invasione. Questo genere di linguaggio è pericoloso, poiché quando cerchiamo di trovare il senso di un’ingiustizia vogliamo immediatamente identificare sia la vittima sia il “cattivo”. Non sempre ci sembra possibile che esista una sofferenza senza un cattivo, anche se spesso scegliamo i colpevoli in maniera soggettiva.
Alcune ricerche lo dimostrano. Per esempio, negli Stati Uniti, gli stati dove è più diffusa la fede in Dio sono quelli dove ci sono maggiori sofferenze – mortalità infantile, tumori o disastri naturali. Questa relazione risulta valida anche prendendo in considerazione una gamma di fattori come il reddito e l’istruzione. Dio è percepito come il “cattivo” responsabile di tutta questa insensata sofferenza.
È giusto provare empatia per i ragazzi intrappolati nella caverna. Ma la notizia scomparirà dai nostri schermi appena emergerà la prossima crisi
È impossibile etichettare quanti soffrono per colpa di un attacco chimico, se non come vittime. Tuttavia, se percepiamo i richiedenti asilo come malintenzionati che cercano di ottenere ingiustamente qualche forma di vantaggio, è molto meno probabile pensare a loro come vittime meritevoli della nostra compassione, il che significa che è molto più facile escluderli dal nostro circolo morale.
Abbiamo la responsabilità etica di pensare diversamente?
Naturalmente è giusto provare empatia per i ragazzi intrappolati nella caverna. Ma indipendentemente da quello che succederà, la notizia scomparirà dai nostri schermi appena emergerà la prossima crisi.
Dovremmo fare in modo che al contempo non scompaiano dal nostro orizzonte anche i problemi di lungo periodo, vittime dei fallimenti della nostra responsabilità etica.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è stato pubblicato dal sito The Conversation.
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