Il 30 gennaio, all’età di 78 anni, è morta a Londra la cantante e attrice britannica Marianne Faithfull.

In un breve documentario del 2016, realizzato per la rivista di arredamento spagnola Apartamento, una Marianne Faithfull settantenne e di salute malferma mostra la sua piccola casa parigina. È un luogo pieno di ricordi, di quadri e di libri: c’è un Budda portafortuna, qualche ritratto di famiglia, tante foto incorniciate del padre Robert, agente dello spionaggio britannico durante la seconda guerra mondiale. La madre Eva, nata a Budapest, era una nobildonna austroungarica in disgrazia imparentata con Leopold von Sacher-Masoch, l’autore del romanzo erotico Venere in pelliccia. Quando Faithfull porta l’operatore nel bagno, un bagno piccolo come solo a Parigi possono essere piccoli, sorride e dice: “Qui c’è qualcosa che potrebbe interessarvi”. Proprio davanti al water, incorniciata, c’è l’unica foto della casa che la ritrae con Mick Jagger, che era stato il suo compagno per quattro burrascosi anni tra il 1966 e il 1970. “Il posto giusto in cui tenerla”, sogghigna, “Voi pensate che per me sia stata una gran cosa e invece…”.

Marianne Faithfull è stata ricordata per tutta la vita (e dai più svogliati anche adesso, in occasione della sua morte) come la fidanzata bella e sfortunata di Mick Jagger: una vittima del vizio, una sopravvissuta degli eccessi degli anni sessanta e, tra le righe, una mezza matta e una madre snaturata. Nonostante la mole del suo lavoro come cantante, interprete e autrice (ventidue album in studio, quattro album dal vivo e innumerevoli raccolte) è stata sempre descritta come una “musa”, ovvero un’ancella del talento altrui. Non stupisce che da vecchia si sia sentita molto vicina a Amy Winehouse: nelle sue dipendenze, nella sua infelicità e nella sua fragilità vedeva la se stessa degli anni sessanta. Faithfull, una stella della swinging London, sempre alle feste giuste e sempre al braccio del ragazzo giusto, non è stata solo una delle prime pop star, è stata anche la prima a essere fatta a pezzi pubblicamente dai tabloid. In questo senso è stata la madre di tutte le Britney Spears, le Lindsay Lohan e le Amy Winehouse, di tutte le pop star sfasciate di cui ci ricordiamo e di quelle di cui ci siamo ormai dimenticati.

Sister morphine

Faithfull negli anni settanta è stata drogata, anoressica e senza casa, ma la sua vera insoddisfazione, il tarlo che la consumava, era la sua frustrazione come musicista. Perché lei, indipendentemente dal successo che aveva avuto con i primi album degli anni sessanta, sentiva di non aver trovato la sua voce e stava per arrendersi. “Sentivo che non sarei mai stata in grado di superare la banalità delle mie canzoni pop, eppure sapevo che quella era la mia sola arte”, scrive nella sua autobiografia del 1994. “Se mai sarei riuscita a raccontare la mia storia interiore sarebbe stato attraverso la musica pop, quel figlio bastardo che la mia generazione era riuscito a trasformare in vera arte”.

Alla fine degli anni sessanta scrive, su musica di Mick Jagger, la sua prima vera canzone come autrice, Sister morphine. Lo fa di getto, come rispondendo a una chiamata: Jagger aveva composto quel riff a Roma, nel periodo in cui viveva lì con la modella e attrice Anita Pallenberg e continuava a strimpellarla mugugnando una melodia. Marianne Faithfull decide che se nessuno scriveva un testo quel ritornello avrebbe continuato a perseguitarla. Sister morphine parla di un uomo che sta morendo dopo un grave incidente e che supplica una suora dell’ospedale di alleviare il suo dolore con la morfina. Quando il pezzo esce nel 1969 come lato b del singolo Something better è subito letto dalla stampa e dal pubblico come la confessione di una tossica. Il 45 giri viene perfino ritirato dal mercato britannico per i suoi riferimenti pericolosi alla droga. “Eppure quando l’ho scritta”, ricorda Faithfull, “avevo provato l’eroina solo una volta. Registrarla non mi ha ispirato a scrivere altre canzoni, ma solo a drogarmi di più. Sono diventata una vittima della mia stessa canzone”. O meglio della percezione che gli altri hanno avuto della sua canzone. Sister morphine non le fece fare un soldo. Quando il pezzo uscì nel 1972 nell’album Sticky fingers dei Rolling Stones il suo nome sparì dai crediti mentre Faithfull sprofondava nella solitudine, nella povertà e nella dipendenza.

Broken english, regia di Derek Jarman (1979)

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La rinascita post-punk

Sister morphine però è stata una canzone importante perché ha fatto capire a Faithfull che quella era davvero la sua arte e che attraverso le canzoni poteva trascendere la banalità della musica folk-pop che aveva fatto fino a quel momento e raccontare, come dice lei, “la sua storia interiore”. E soprattutto che avrebbe potuto farlo da sola.

Ci sono voluti sette anni e l’esplosione del punk sulla scena londinese per farle trovare la sua vera voce. E quando, nel 1979, uscì il suo album Broken english nessuno era preparato a sentire quella voce. Quell’angelo biondo, la donna-bambina dagli occhi grandi che cantava As tears go by si era trasformata in una strega dalla voce spessa e cavernosa, la voce di una donna pronta a riprendere in mano la sua storia e a raccontarla a modo suo. Faithfull non aveva neanche 35 anni ai tempi di Broken english, ma la sua voce ne dimostrava molti di più: era una voce senza tempo, molto più limitata nei mezzi ma molto più ricca di colori e di sfumature rispetto a quella di quando era una starlet di Carnaby street. La ragazza con gli abitini a trapezio e la cascata di capelli biondi, la ragazza che fu portata via nuda avvolta solo in un tappeto di pelo durante una pubblicizzatissima retata della polizia era morta e sepolta. Al suo posto c’è un’artista.

Broken english, pur essendo uscito nel 1979, è uno degli album pop rock più potenti degli anni ottanta. Faithfull riesce a mettere insieme una raccolta di canzoni che seguono un filo autobiografico senza essere stucchevoli o didascaliche. Soprattutto, lavorando con il produttore Mark Miller Mundy, mette a punto un suono post-punk affilato, coeso e moderno, qualcosa a cavallo tra i Clash più eclettici di Sandinista! e i Police di Reggatta de Blanc. A tenere tutto insieme la voce di Marianne Faithfull, che riesce a essere malinconica, dolce, selvaggia, crudele e ancora più spesso ironica e spiazzante. Tra i pezzi dell’album, tutti notevoli, spiccano The ballad of Lucy Jordan, un pezzo su cosa sarebbe stato di lei se fosse diventata una rispettabile signora borghese e Witches’ song, una canzone pagana sulla sorellanza con cui rivendica tutte le sue scelte, anche le più sbagliate.

“Il pericolo è autentica gioia e l’oscurità brilla come un fuoco”, canta ribaltando la sua storia di vittima bambina nel racconto di una donna che rivede la sua vita, anche nelle sue parti più oscure e dolorose, come un percorso iniziatico di liberazione. Quando canta Working class hero di John Lennon lo fa con un’aria di sberleffo: “Io sono tutt’altro che working class”, scrive Faithfull nelle note che accompagnano una ristampa dell’album del 2013. “Il fatto che mia madre fosse stata questa baronessa dell’Austria Ungheria però non voleva dire niente: eravamo poveri in canna e io sono stata educata in un collegio cattolico per carità. La prima volta che ho sentito quella canzone in un jukebox nel Galles era il 1973 e stavo facendo letteralmente la fame con mia madre e mio figlio Nicholas. Non era affatto bello, eppure per la stampa rimanevo eternamente una viziata debuttante dell’alta società”.

Broken english uscì subito prima che il video musicale diventasse il principale strumento promozionale della musica pop, ma nonostante questo l’etichetta Island Records volle investire in un video EP e affidò il lavoro al regista d’avanguardia Derek Jarman: il risultato è un mini film di un quarto d’ora che accompagna tre canzoni, Witches’ song, The ballad of Lucy Jordan e Broken english. Il viso stanco e segnato di Marianne Faithfull, in quel bianco e nero sovraesposto, è di una bellezza devastante. Le basta camminare per Londra sola e infreddolita per dare corpo alle sue canzoni.

Da Broken english in poi tutti fanno a gara per scrivere e produrre per Marianne Faithfull: nel 1987 Hal Willner le produce l’album Strange weather (un altro capolavoro in cui affronta pezzi di Bob Dylan e Tom Waits e soprattutto si riappropria di una delle sue hit giovanili, As tears go by); nel 1994 Angelo Badalamenti arrangia e produce l’album A secret life e a partire dal 2000 scrivono per lei tra gli altri i Blur, Beck, Jarvis Cocker, Dave Stewart degli Eurythmics, Billy Corgan, Pj Harvey e Nick Cave. A partire dagli anni novanta Marianne Faithfull si è distinta anche come interprete brechtiana: ha portato in teatro L’opera da tre soldi a Dublino, nella traduzione del poeta irlandese e suo grande amico Frank McGuinness, e ha inciso l’opera di Kurt Weill I sette peccati capitali.

Proprio McGuinness nella prefazione dell’autobiografia Faithfull del 1994 descrive la forza di Marianne in una riga: “Non ho mai conosciuto nessuno con la sua determinazione di guardare sempre al futuro. Non ho molta più contezza di lei di cosa ci riserverà il futuro, ma muoio dalla voglia di sentirlo dalle sue labbra. Salute, Marianne, buona fortuna”.

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