Quanti di noi si chiedono che ne è stato delle fidanzate e dei fidanzati di un tempo? Quasi tutti, suppongo, anche se c’è una grande differenza tra pensarci di tanto in tanto e non riuscire mai a toglierseli dalla testa. Ogni tanto cerco su Google una delle donne che hanno avuto la sfortuna di essere state con me, ma solo in due casi ho scoperto dov’erano e che cosa sono diventate adesso. Nessuna di loro, per quanto ne so, ha fatto altro che sposarsi e vivere, anche se non proprio felicemente, almeno senza finire sui giornali. Non ho mai cercato di contattarle.

Ma qualcuno sceglie una strada più rischiosa e cerca le persone con l’intenzione di vedere se le braci della passione possono essere riaccese. Agli inizi di Facebook e di altri servizi simili esisteva un catalogo di notizie di cronaca sui matrimoni andati distrutti dopo che qualcuno aveva contattato un ex fidanzato o fidanzata, perché molti immaginavano che resuscitare un rapporto precedente sarebbe stata la soluzione alla loro attuale insoddisfazione. Quel catalogo esiste ancora.

Il mese scorso un uomo è stato condannato per omicidio dopo aver rintracciato una sua ex, aver avviato una relazione con lei e poi aver ucciso la moglie per fare spazio nella sua vita. Aveva 74 anni, il che dimostra che la passione non muore quando ti cadono i denti. Ci sono anche persone, soprattutto donne, che vivono tranquillamente con i loro mariti e, improvvisamente, ricevono un messaggio dal ragazzo che avevano al college trent’anni prima, che sostiene di avere ancora vivo il ricordo, di aver commesso un terribile errore a sposare la moglie e propone di rivedersi per fingere che sia ancora il 1988.

Un libro in uscita
Perciò sarebbe stato comprensibile se mia moglie si fosse allarmata quando le ho detto che intendevo contattare due mie ex. Ma non è successo perché: a) sono vecchio e affidabile, almeno per quanto riguarda le donne e b) volevo solo controllare un paio di cose che ho scritto in un libro sulla mia infanzia, in uscita quest’anno.

La prima di loro si chiama Mary Ann, era la mia ragazza ai tempi dell’università e, nel 1973, era stata aggredita e aveva evitato il peggio solo perché un ciclista di passaggio aveva spaventato il suo assalitore. Io l’avevo saputo perché due poliziotti erano venuti al mio college, mi avevano detto quello che era successo e mi avevano portato da lei. Era ancora palesemente sotto shock, perciò passai la notte nella sua stanza, sonnecchiando su una poltrona mentre lei dormiva agitata nel suo letto. Quando il giorno dopo arrivò sua madre, era furiosa con il college femminile di Mary Ann per la mancanza di assistenza, che mi aveva costretto a restare con lei. La reazione della scuola era stata immediata: “Il suo ragazzo ha passato la notte al college?”. Quella era l’unica cosa che sembrava preoccuparli piuttosto che le ferite e il trauma della ragazza.

Sono riuscito a rintracciarla e le ho chiesto se potevo raccontare questa storia, magari cambiando il suo nome. Mi ha risposto che ricordava tutto perfettamente come lo avevo scritto e che potevo anche usare il suo vero nome.

La verità sull’Olocausto
La seconda ragazza era la mia migliore amica quando avevamo cinque anni. Si chiama Hanna. I suoi genitori erano di origine tedesca e avevo scritto che per loro stabilirsi nel Regno Unito non doveva essere stato facile, dato che erano passati dieci anni dalla fine della seconda guerra mondiale.

Volevo controllare questo e qualche altro dettaglio e, grazie al fatto che oggi Hanna è impegnata nelle campagne per l’ambiente, ho trovato subito la sua email e le ho mandato quello che avevo scritto. Non sapevo neanche metà della storia. Suo padre, che era per metà ebreo, era stato messo su un treno per lasciare la Germania nazista nel 1936, era stato adottato da una famiglia inglese, si era laureato in chimica ma allo scoppio della guerra era stato internato. Il suo ottimo inglese e le sue qualifiche gli avevano però permesso di essere rilasciato e di entrare nell’esercito britannico, dove aveva finito per comandare l’equipaggio di un carro armato. Alla fine del conflitto era stato mandato a lavorare al processo di Norimberga contro i criminali di guerra.

Lì aveva conosciuto una graziosa ragazza di nome Elfriede che faceva la segretaria. Si erano innamorati, sposati ed erano tornati nel Regno Unito nel 1948, dove avevano avuto tre figlie. Inserirsi non era stato facile, da piccola Hanna aveva dovuto sopportare che gli altri bambini le facessero il saluto nazista.

Qualcosa mi ha spinto a cercare sua madre su Google, finché sul sito dell’Imperial war museum di Londra ho trovato una sua intervista audio sulla sua esperienza a Norimberga. Ho riconosciuto immediatamente la voce, e la registrazione contiene un’ora di ricordi sui bombardamenti e la fame che aveva sofferto da adolescente, e il suo lavoro al processo, dove aveva sottratto alcuni documenti per dimostrare ad amici e familiari tedeschi che l’Olocausto c’era stato sul serio.

Ho scritto di nuovo a Hanna per dirle che ero rimasto affascinato da quella testimonianza, aspettandomi che mi rispondesse che la conosceva bene. Invece, non aveva idea della sua esistenza ed è stata felicissima di risentire la voce di sua madre, il che dimostra che contattare vecchie amicizie non è sempre fonte di guai.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it