Nel corso dell’ultimo paio di secoli, c’è stata una serie di ricchi inglesi, uomini e donne, venuti a vivere in Italia per godersi la sua arte e i suoi paesaggi. Alcuni sono stati relativamente innocui, non più parassiti di quanto lo sarebbero stati a casa loro; mentre altri sono arrivati, si sono divertiti e ne hanno saccheggiato anche l’arte e la cultura. Ma di tanto in tanto, arrivava un inglese ricco che non lasciava come contributo solo il ricordo del suo appetito per il cibo, le donne e i dipinti del rinascimento. E mi piacerebbe raccontare la storia di uno di loro, un uomo le cui opere buone vivono ancora in tutta Italia a più di settant’anni dalla sua morte.
Si chiamava Leonard Hawksley, nato nel 1872 da una famiglia delle Midland inglesi la cui ricchezza era fondata sull’ingegneria. La passione di Leonard non erano però i progetti e la meccanica, ma gli animali. E così, quando arrivò in Italia poco più che ventenne, non si diresse verso le fabbriche di Torino o, come molti giovani stranieri ricchi, le gallerie di Firenze e i bordelli di Napoli, ma verso il santuario di San Francesco ad Assisi. Lì si inginocchiò e giurò di dedicare la sua vita al benessere degli animali. E, per i successivi 36 anni in cui visse in Italia, è proprio quello che fece.
Cominciò da Napoli, dove era rimasto inorridito nel vedere il trattamento spesso barbaro riservato ai cavalli e ai muli. Molti animali erano muniti di cavezze dai bordi seghettati, redini con punte e morsi tempestati di chiodi affilati. Collaborò con la principessa Mele Barese, un’eccentrica signora inglese che aveva sposato un nobile italiano e aveva fondato un’organizzazione contro la crudeltà nei confronti degli animali piuttosto amatoriale, ben intenzionata ma non sempre efficace. Hawksley la riformò ribattezzandola Società napoletana per la protezione degli animali e intervenne nei casi più gravi di persona o rivolgendosi ai tribunali.
Passione pericolosa
Era un lavoro pericoloso. Nel 1897 subì un’imboscata da parte di alcuni vetturini che aveva denunciato e fu ricoverato in ospedale con ferite alla testa. Un’altra volta, dopo aver tentato di impedire che i buoi venissero oberati di carichi eccessivi di marmo nelle montagne di Carrara, i minatori fecero esplodere una mina che coprì Hawksley di sassi. Il peggior attacco lo subì quando fu riempito di botte e lasciato sui binari di un tram perché fosse investito. Un manovratore attento riuscì a fermare il tram appena in tempo, ma Hawksley trascorse tre mesi in ospedale e perse un occhio. Complessivamente, fu aggredito 31 volte e sopravvisse a otto tentativi di omicidio.
Nel 1901 fondò e diresse per 30 anni la Società romana per la protezione degli animali, che impiegava ispettori per andare a caccia di casi di crudeltà in tutto il paese. Organizzò una campagna per chiedere che venisse modificata la legge, ottenendo che fossero considerati illegali i combattimenti tra cani e bovini e il lancio di pietre contro uccelli legati. Durante la grande guerra istituì la Croce Blu italiana, che gestiva venti ospedali veterinari e si dice abbia salvato la vita a 35mila tra cavalli e muli. Quando i problemi di salute lo costrinsero a tornare in Inghilterra nel 1931, all’età di 59 anni, Hawksley era stato determinante per la fondazione di santuari per gli uccelli e di 22 società per il benessere degli animali in tutta Italia.
Quattro anni dopo la sua morte, avvenuta nel 1948, l’ente benefico che portava il suo nome istituì la Società anglo-italiana per la protezione degli animali (Aispa), che oggi esiste ancora e finanzia con lasciti e fondi raccolti dai suoi sostenitori nel Regno Unito più di trenta associazioni, da Como a Marsala, e due iniziative in Sardegna. Tra queste c’è la Dingo, che si prende cura delle centinaia di gatti randagi in giro per Venezia (ed è stata fondamentale per ridurne la popolazione dai circa 12mila del 1965 al numero molto più ridotto di oggi); la Italian horse protection, che dà una casa agli animali salvati in Toscana; il Santuario dei gatti di Torre Argentina a Roma, che nutre (e sterilizza, quando può) 45 colonie di gatti randagi; il progetto Enpa per la cura dei cani e dei gatti a Faenza; alcuni centri di sterilizzazione e castrazione del sud Italia; e l’Ediga, l’unico rifugio per gatti in Sicilia. C’è poi l’Animal welfare Verano, che si prende cura degli oltre 400 gatti del cimitero storico di Roma, ritenuti la più grande colonia felina d’Europa. Anche a Cecina, la Mici felici, fondata nel 2006, si occupa di colonie di gatti, ne ha sterilizzati e castrati 460 e ha trovato una casa a più di 200 gatti e gattini. Dispone inoltre di cucce per 36 cani.
Un ente benefico che raccoglie fondi in un paese a vantaggio degli animali di un altro sembra un concetto piuttosto bizzarro. Potreste pensare che sia un ulteriore esempio di quanto possono essere paternalistici gli inglesi, il che, sono il primo ad ammettere, a volte è vero. Ma l’Aispa è una vera partnership tra il Regno Unito (che nel 1800 fu il primo paese a introdurre una legislazione contro la crudeltà sugli animali, e due anni dopo il primo ad avere una Società per la protezione degli animali) e l’Italia, dove una società simile fu fondata nel 1871 nientemeno che da Giuseppe Garibaldi. I britannici raccolgono i soldi, i volontari italiani e gli specialisti si prendono cura degli animali. E comunque, come diceva sempre Leonard Hawksley in risposta all’accusa di interferire negli affari di un altro paese, “gli animali non hanno nazionalità”.
(Traduzione di Bruna Tortorella)
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