Diciamo che nel migliore dei mondi possibili tutti dovrebbero studiare lungo l’intera esistenza, e non perché obbligati ma perché studiando si gusta di più la vita. Disgraziatamente, però, è proprio l’idea che studiare accentua il piacere di stare al mondo a sparire – in linea di massima – appena si mette piede in un’aula. Di conseguenza il problema più urgente non è, come si è detto di recente, quanto tempo bisogna passare nei banchi per obbligo, ma come migliorare la qualità di quel tempo.
La scuola com’è adesso funziona alla grande solo con chi non ne ha bisogno, cioè con i felici pochi che per una serie di fortunate circostanze studierebbero e imparerebbero anche se ci mettessero piede saltuariamente. Gli altri – tutti quelli che invece ne hanno una grandissima necessità – o ne ricavano mediocre giovamento o mollano. È una brutale constatazione da cui bisognerebbe partire per dirsi che sì, questionare su quanti anni bisogna passare nei banchi è interessante, ma non risolutivo.
Risolutivo è come fare una scuola che non ratifichi disuguaglianze preesistenti e non si autoincensi perché ha ottenuto ottimi risultati con chi avrebbe fatto bene comunque. La scommessa è realizzare spazi formativi di elevata qualità per tutti, pensati contro gli effetti della disuguaglianza e gestiti in modo che essere presenti sia infinitamente meglio che essere assenti.
Questa rubrica è stata pubblicata l’8 settembre 2017 a pagina 12 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati
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