Dopo l’annuncio della vittoria della Brexit i problemi si moltiplicano, sia dal punto di vista politico sia da quello strettamente giuridico. Il premier David Cameron, nella conferenza stampa successiva all’annuncio dei risultati del referendum, ha fatto due cose molto importanti: ha dato le sue dimissioni, prefigurando che un nuovo leader sarà eletto in tempo per il congresso del Partito conservatore di ottobre; e ha indicato che toccherà al nuovo leader negoziare la separazione dall’Ue. Quest’ultima nota, su cui con qualche eccezione i mezzi d’informazione britannici non si sono soffermati, è stata immediatamente recepita da Bruxelles che ha incoraggiato il governo di Londra a cominciare al più presto la procedura per l’uscita.
Le reazioni non si sono fatte attendere. Boris Johnson – il leader della campagna a favore del leave (uscita) e amico/rivale di Cameron – ha fatto sapere che non c’è fretta, e che per ora tutto rimane come prima. Nicola Sturgeon, prima ministra scozzese, ha annunciato l’intenzione di indire un nuovo referendum sull’indipendenza della Scozia. Nel frattempo Jonathan Hill, il commissario britannico con responsabilità per i servizi finanziari europei, si è dimesso e il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker ha chiarito che al suo successore britannico non sarà affidato lo stesso portafoglio. Il leader del Partito laburista Jeremy Corbyn è contestato dal suo stesso partito allibito dalla mancanza di convinzione con cui Corbyn ha condotto la campagna referendaria. Il partito indipendentista dell’Irlanda del Nord, il Sinn Féin, ha chiesto un referendum su una possibile unione con la Repubblica d’Irlanda. Se questo è lo scenario politico che si sta rapidamente (molto rapidamente) delineando, quali sono i meccanismi legali?
Il processo di uscita
Il trattato di Lisbona aveva introdotto nel 2007, su richiesta proprio del Regno Unito, una procedura per la recessione di uno stato membro. L’articolo 50 prevede che lo stato che voglia esercitare il diritto a recedere dall’Unione ne dia notifica al Consiglio europeo (il gruppo che comprende i capi di stato di tutti i paesi membri; il presidente del Consiglio europeo – al momento Donald Tusk; il presidente della Commissione europea – al momento Juncker; e la rappresentante della politica estera e di sicurezza comune – al momento Federica Mogherini).
Ricevuta la notifica, si aprono quindi le trattative su iniziativa della Commissione europea ma con decisione del Consiglio. L’Unione quindi nomina un negoziatore o un team di negoziatori. Una volta definito, l’accordo deve poi essere approvato dal Parlamento europeo e dal Consiglio con una maggioranza qualificata per assicurare sia la rappresentanza democratica sia quella geografica (serve l’approvazione del 55 per cento dei membri del Consiglio che comprendano almeno il 65 per cento della popolazione dell’Unione). Il Regno Unito ovviamente non può votare in Consiglio sull’accordo di scissione. L’accordo deve essere approvato entro due anni, a meno che non ci sia una proroga. Tale proroga però deve essere approvata all’unanimità dai membri del Consiglio, il che significa che ogni stato membro ha diritto di veto.
I dettagli della separazione
Spetta al governo britannico decidere quando inoltrare all’Unione la notifica di recesso, ma ci sono indicazioni che il campo favorevole alla Brexit – che non aveva né un piano A né tantomeno un piano B in caso di vittoria – non abbia particolarmente fretta di cominciare le trattative formali, poiché dalla notifica scatta il cronometro e due anni passano in fretta, soprattutto considerando la miriade di questioni politiche e istituzionali da sbrogliare sia sul piano europeo sia su quello interno. Mentre inizialmente il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz aveva dichiarato di voler accelerare il processo, per evitare che “un intero continente sia preso ostaggio” dei litigi interni a un partito politico, il Consiglio europeo ha accettato che spetti al Regno Unito decidere quando inoltrare la notifica di recessione.
Nelle trattative sul piano europeo si dovranno decidere sia i dettagli della separazione (per esempio il trattamento dei cittadini britannici ed europei coinvolti; i profili istituzionali; il recesso del Regno Unito dagli accordi internazionali di cui fa parte l’Ue), sia gli accordi che regoleranno il rapporto tra Regno Unito e Unione, anche se non è chiaro né dal punto di vista legale né da quello politico se le trattative sui rapporti futuri saranno affrontate insieme o separatamente da quelle sul recesso.
È altamente improbabile che l’Ue accordi al Regno Unito l’accesso al mercato unico senza includere la libera circolazione dei lavoratori
Quanto alle opzioni possibili, quelle già esistenti prevedono la partecipazione all’area economica europea (opzione Norvegia) o all’associazione europea di libero scambio (opzione Svizzera) – quest’ultima meno appetibile e più complessa perché formata da una miriade di accordi di settore. L’opzione Norvegia sarebbe la migliore soprattutto in quanto consentirebbe una rapida risoluzione della crisi e rassicurerebbe gli investitori visto che la partecipazione del Regno Unito al mercato interno continuerebbe più o meno invariata.
Purtroppo c’è un ostacolo politico: la campagna per l’uscita dall’Ue è stata impostata principalmente su due argomenti: l’immigrazione e la sovranità nazionale. L’accordo con la Norvegia prevede la libera circolazione dei lavoratori e quindi non avrebbe nessun effetto sull’immigrazione. E l’accordo negoziato da Cameron con l’Ue lo scorso febbraio, che limita l’accesso dei lavoratori comunitari al welfare, non sarebbe applicabile in queste circostanze. Quanto alla sovranità nazionale, l’opzione Norvegia è più lesiva delle prerogative nazionali, poiché la Norvegia applica tutta la legislazione Ue sul mercato interno senza però partecipare al processo decisionale.
Ci sono tuttavia indicazioni che alcuni membri del Partito conservatore non ritengano che quanto detto in campagna referendaria sia vincolante – il che dà anche un’idea dell’onestà con cui è stata condotta tale campagna.
Accordi bilaterali
La terza opzione sarebbe quella di un accordo bilaterale tra l’Unione e il Regno Unito, tuttavia è altamente improbabile che l’Ue accordi l’accesso al mercato unico senza includere la libera circolazione dei lavoratori.
La quarta opzione (quella che sarebbe benvenuta da molti) è cercare di fare un grande passo indietro, o con un secondo referendum – difficile da giustificare dal punto di vista democratico – o attraverso un nuovo mandato elettorale, anche quello non facile visto che un terzo del Partito conservatore ha fatto campagna per uscire dall’Unione.
Dal punto di vista nazionale, la Brexit comporta molte altre sfide, inclusa la necessità di deregolamentare, liberandosi del diritto europeo, e di regolamentare nuovamente l’intero mercato. Non è escluso che ciò sarà fatto gradualmente, convertendo la legislazione di origine europea in legislazione nazionale che potrà poi essere modificata quando necessario. Un tale approccio consentirebbe anche alle merci prodotte nel Regno Unito di soddisfare gli standard Ue, e di poter essere così esportate con più facilità.
Ma forse, sul piano interno, la sfida più grande è tenere insieme il Regno Unito, evitando che si sfaldi in due entità (Inghilterra/Galles da una parte e Scozia dall’altra, con Irlanda del Nord come variabile). A questo va sommato un altro problema non da poco: la paura che l’uscita dall’Ue abbia effetti negativi sul processo di pace in Irlanda del Nord.
Il problema Scozia
Si è detto che la prima ministra scozzese ha già annunciato che un secondo referendum sull’indipendenza scozzese è molto probabile. Questo pone due problemi di carattere sia politico sia legale: in teoria, tale referendum deve essere autorizzato dal parlamento di Londra. In secondo luogo, non è affatto chiaro se la Scozia, divenuta indipendente, dovrebbe o no fare domanda di adesione alla Ue come nuovo stato membro, oppure se possa succedere al Regno Unito (il che avrebbe il vantaggio di non obbligare la Scozia a entrare in Schengen o adottare l’euro).
Questo comporta un’altra difficoltà, giacché l’indipendenza scozzese sarebbe appetibile solo nel contesto dell’appartenenza all’Unione europea. Un’altra questione, anche questa non facile, è se il parlamento scozzese debba dare il suo assenso all’uscita del Regno Unito dall’Unione. Se così fosse, Sturgeon ha indicato che visto che tale recesso non è nell’interesse della Scozia, si sentirebbe giustificata a imporre il proprio veto.
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