Un richiedente asilo siriano a Calais, 4 ottobre 2013. (Pascal Rossignol, Reuters/Contrasto)
In questo preciso istante, a Calais, dei rifugiati kosovari tentano di raggiungere clandestinamente l’Inghilterra. I passeurs *esigono somme enormi e a volte spariscono prima della traversata. Ma nulla ferma i kosovari, né tutti i migranti dei paesi poveri: non hanno altra via di salvezza. Si dà la caccia ai *passeurs, se ne deplora l’esistenza come trent’anni fa quella delle mammane. Non si rimettono in discussione le leggi e l’ordine mondiale che ne sono all’origine. E ci devono pure essere, tra i *passeurs *d’immigrati, come un tempo tra le *passeuses *di bambini, persone più corrette di altre.
Questo brano è tratto da L’événement, testo autobiografico che la scrittrice francese Annie Ernaux ha pubblicato nel 2000. Le ci sono voluti più di trent’anni per riuscire a raccontare l’aborto clandestino cui si era dovuta sottoporre nel 1963, dodici anni prima che l’interruzione di gravidanza diventasse legale in Francia. L’événement è un testo secco e chirurgico, anche nelle divagazioni come questa su mammane e passeurs. Sono passati tredici anni dall’uscita del libro e a Calais non è cambiato nulla, o quasi: al posto dei kosovari oggi ci sono i siriani.
Passeur, coyote, smuggler: altre lingue hanno un termine preciso, anche se non sempre ufficiale, per indicare chi, dietro pagamento, fa entrare in un territorio chi non può entrarvi legalmente. La Pirogue, film del regista senegalese Moussa Touré ambientato quasi tutto su un’imbarcazione che dal Senegal tenta di raggiugere la Spagna, sembra illustrare il pensiero di Annie Ernaux nel ritratto sfumato che offre di due di questi trafficanti.
In italiano, appunto, usiamo “trafficante”, ma con lo stesso termine ci riferiamo a due categorie (e a due reati) ben diverse: chi è pagato per trasportare persone consenzienti oltre una frontiera (reato contro lo stato) e chi invece è pagato per trasportare persone contro la loro volontà (reato contro la persona, che si accompagna allo sfruttamento). Nel primo caso si parla di traffico di migranti, nel secondo di traffico (o tratta) di esseri umani.
Questa distinzione, sancita dalle Nazioni Unite nei Protocolli di Palermo, è spesso ignorata, persino da alcuni difensori dei diritti umani. Ricordo una conferenza sui morti nel Mediterraneo in cui un esperto aveva scandalizzato i presenti rifiutando di condannare i trafficanti di migranti: “Se una legge mi vieta di mettermi in salvo o di cercare una vita migliore in un altro paese e qualcuno è disposto ad aiutarmi in cambio di denaro, l’unica cosa da condannare è la legge”, era stata la sua osservazione. Immagino le proteste se avesse azzardato il paragone con chi vendeva documenti falsi agli ebrei sotto il nazismo o ai tedeschi in fuga dalla Germania Est (paragone avanzato dalle autrici di questo articolo).
Oggi, giornata europea contro la tratta degli esseri umani, è un’ottima occasione per ribadire questa distinzione. E per ricordare che i trafficanti di migranti sono l’inevitabile conseguenza delle restrizioni imposte alla circolazione di una gran parte della popolazione mondiale (la meno ricca). Come molti hanno sottolineato dopo il naufragio del 3 ottobre a Lampedusa (tra cui i ricercatori Hein De Haas e Nando Sigona), non ha senso sprecare fiato e risorse in quella che politici e mezzi d’informazione chiamano “lotta ai trafficanti di esseri umani nel Mediterraneo”. Oggi a nessuno verrebbe in mente di dire che la causa degli aborti clandestini erano le persone che li praticavano. Rafforzare Frontex è un po’ come se all’epoca si fosse mandato l’esercito a sgominare le mammane. Una follia, eppure è quello che sta succedendo.
Francesca Spinelli è giornalista e traduttrice. Vive a Bruxelles e collabora con Internazionale. Su Twitter: @ettaspin
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