Un labirinto gigantesco dietro la monumentalità, l’ampiezza apparente. L’elegante movimento di camera con cui si apre Good time, una carrellata panoramica aerea laterale su New York, partendo dalla baia, enuncia lo stile di regia del film e al tempo stesso enuncia il suo significato profondo mediante l’ampiezza dell’orizzonte che gradualmente si restringe fino ad arrivare alla finestra esterna di un grattacielo di Manhattan, quella di una estesa prigione. L’apertura iniziale rappresentata dalla vastità dei cieli e del mare si richiude quasi immediatamente, grazie a questo splendido ma velocissimo movimento di camera obliquo.

I fratelli Josh e Benny Safdie, maestri dell’intimità e giovani stelle del cinema indipendente statunitense al loro quinto lungometraggio, intellettuali ebrei quanto buffi e simpatici, sono alla loro prima impresa veramente ambiziosa dal punto di vista produttivo anche per la presenza dell’attore protagonista, la star forse più gettonata di Hollywood, Robert Pattinson, il quale sembra lanciatissimo nel cinema d’autore.

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Celebrato con una lunga intervista anche dai Cahiers du Cinéma, dopo David Cronenberg, James Gray e i fratelli Safdie si appresta a recitare nel prossimo film della grande regista francese Claire Denis. Good time è stato presentato all’ultimo festival di Cannes per giunta in concorso, ricevendo molte più lodi dalla critica, e da svariate testate, rispetto alla maggior parte dei film premiati. La pellicola è anche una scommessa vinta commercialmente perché nelle prime cinque settimane ha incassato negli Stati Uniti quasi due milioni dollari.

Il film, nella sua diversità stilistica e di temi, ha qualcosa di prossimo al film cileno Una donna fantastica, recensito la settimana scorsa. Anche questo è ipnotico, avvolgente, fluido, piacevolissimo e molto avvincente, ma quello dei Safdie è anche un film adrenalinico. È un film quasi da anni settanta o primi ottanta, ma filtrato al tempo stesso con una sensibilità davvero moderna, mantenendo un equilibrio sapiente dall’inizio alla fine. Si pensa a certo cinema di quel periodo e in particolare agli straordinari film metropolitani di William Friedkin o allo Scorsese di Fuori orario ma volendo anche di Taxi driver, in questa rivisitazione personalissima di tutto un cinema psicotico-psichedelico americano. Non per nulla Scorsese, un sostenitore del film, sarà il produttore del prossimo lungometraggio dei Safdie.

Film di atmosfere, allucinato, distorto che non perde mai l’eleganza e la profondità nella messa in scena, impiega circa un quarto d’ora per far comparire i titoli di testa i quali vengono spalmati sullo schermo con un’ulteriore dilatazione temporale. Il tutto avvolto da costanti musiche pulsanti, elettriche, che invadono i dialoghi, le conversazioni, fin quasi a sommergerle. Fin dall’inizio, una volta finita la carrellata e penetrati nel building dove si assiste alla conversazione tra uno psicologo e un ragazzo down.

Nel film un po’ tutti sono rinchiusi e metaforicamente forse lo siamo un po’ tutti noi

È la storia di due fratelli disadattati, marginali: uno bello e più sveglio, Connie, interpretato da Pattinson, e l’altro, Nick, con una disabilità mentale ed evidenti difficoltà nel rapportarsi con il mondo, interpretato da Benny Safdie. Nel primo quarto d’ora assistiamo alla fuga di Nick dal luogo in cui è ricoverato, o forse sarebbe meglio dire rinchiuso, e poi a una rapina in banca dei due che si risolve praticamente in farsa. Ma lungo il film apparirà che un po’ tutti sono rinchiusi e che metaforicamente forse lo siamo un po’ tutti noi.

Tutto volge nel caos ma anche nell’ironico. Ci sarebbe da ridere se si prendesse distanza per un momento dagli avvenimenti, ma non c’è il tempo visto il ritmo incessante. A poco a poco emerge invece compiutamente il ritratto di una tragedia esistenziale, intima, all’interno di una rappresentazione implacabile dei meccanismi sociali. Un film di comportamenti e non introspettivo da cui fuoriesce comunque la descrizione, di una precisione chirurgica, di tipologie psicologiche ma anche di esseri umani nella loro interezza. Nelle rispettive interpretazioni, Safdie è eccezionale ma Pattinson giganteggia: Connie si rivela il vero personaggio del film, portandolo sulle sue spalle fino alla fine.

In quella fuga iniziale della rapina andata male – questo è tra i pochi spoiler che faremo – i registi-sceneggiatori, come già in passato coadiuvati dall’eccezionale direttore della fotografia Sean Price Williams, dimostrano una notevole forza pittorico-visiva, oltre che registica, tendente all’astrazione, acuita dall’altrettanto notevole lavoro di montaggio, come per gli altri film firmato da Benny Safdie insieme a Ronald Bronstein, a sua volta geniale regista indipendente ancora oggi sconosciuto in Italia.

Rosso
Se dovessimo fare un paragone dal punto di vista formale con le arti visive diremmo che il film è qualcosa a metà tra la pittura di un Jackson Pollock e la sua action painting (per esempio in certe sequenze di flashback) e un approccio monocromatico puramente concettuale. In macchina esplode lo spray dal colore rosso che serviva da arma durante la rapina: è il caos, implicitamente affiora qualcosa di derisorio, ma soprattutto in quella sequenza il rosso invade definitivamente il campo dell’immagine per dominarla fino alla fine. Mura di palazzi, cancelli, giubbetti o le tantissime luci al neon di questo film notturno, fino alla sequenza fondamentale, anch’essa notturna, nel luna park. Il rosso è anche quello del sangue di quei volti continuamente tumefatti, spesso, se non sempre, per cause risibili. Nick in apertura fugge dalla stanza e dai corridoi dell’ospedale insieme al fratello e subito si trovano nei vicoli della città. Stanze, corridoi, vicoli, sono il leit motiv visivo-architettonico ripetuto incessantemente.

Esprimendo una visione sociale deterministica, le architetture moderne sembrano pensate per imprigionare e alienare: Good time non rinnega del tutto la dimensione delle responsabilità personali. Se i maschi con difficoltà cognitive non sono certo persone mature, i maschi dalle apparenti capacità cognitive si rivelano persone altrettanto immature, quando non gretti, meschini, bassi. Il film dei Safdie rimane però sempre sottilmente umano, tenero verso il ragazzo down, ma in qualche modo anche verso il fratello sveglio, interpretato da Pattinson. Alla fine, per quanto sia manipolatore a getto continuo, in lui appare come una fanciullesca inconsapevolezza, non per assolverlo, ma perché visto come il triste e tragico prodotto di un certo sistema culturale americano, maschilista e insieme infantile.

Alla fine non sembra quasi capire perché tutto pare accanirsi contro di lui, perché sfumi il suo sogno di evadere da quella realtà e soprattutto di far evadere il fratellino, il cui legame affettivo è reale, intenso. In questo bad trip come è stato definito, non ci sono padri, le donne sono tutte nonne o madri anziane, oppure bambine sveglie ma comunque manipolabili. Unica donna giovane adulta, la fidanzata del protagonista interpretata da Jennifer Jason Leigh, la quale manipola la madre per far contento il fidanzato manipolatore. Questa forse l’unica caratteristica ben definita in Good time dove assistiamo a continui quanto goffi episodi d’interscambio delle identità. Non è facile mantenere la propria identità, forse non è facile avere una propria identità tout court.

Un sentimento di umana tenerezza fa comunque capolino nel finale di questo (micro e macro) mondo psicotico e ossessivo, mentre vediamo il volto sperduto di Nick e scorrono note e parole della splendida canzone The pure and the damned, concepita appositamente per Good time dal musicista sperimentale Oneohtrix Point Never e Iggy Pop: “Tutti i giorni penso a come sciogliere, slegare i legami, le corde che mi legano. Vorrei avere una vita pura, guardare un cielo sereno. Non succederà. Ma è un bel sogno”.

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