Arriva in sala un film sorprendente, appassionante e femminista, ma anche sfaccettato e pieno di colpi di scena come un thriller hitchcockiano, di cui in qualche modo porta con sé la precisione di regia e l’eleganza formale. Anatomia di una caduta della francese Justine Triet, Palma d’oro all’ultimo festival di Cannes e campione d’incassi in patria, è allo stesso tempo un film giallo, intimista e processuale. Un’opera di alto livello sull’ambiguità del reale, intrisa però di uno sguardo e di un vero sentire umano.

Una musica trascinante risuona nel salotto di uno chalet di montagna, immerso nelle nevi. Sembra l’inizio di una commedia divertente e piena di ritmo, ma la musica si arresta bruscamente, come un colpo d’ascia che cade netto sul legno. Un uomo precipita dall’alto e muore. Un ragazzo cieco è in giro con il suo cane poco lontano. Una donna, moglie dell’uomo precipitato e madre del ragazzo, si trova improvvisamente vedova, travolta dal dolore. Ma troppe cose non tornano e la donna finisce sotto processo, devastata due volte.

Prima di addentrarci oltre, va fatta una necessaria premessa sulla collocazione del film in questo particolare momento storico. Rispetto ad altri titoli vinti da autrici in questi ultimi anni nei grandi festival, è il primo davvero convincente. Nel 2021, per esempio, ad aggiudicarsi la Palma d’oro era stato Titane di Julia Ducournau. Se si pensa alla qualità dei titoli di quella straordinaria edizione dopo la pandemia, premiare quel piccolo film di genere può sembrare ancora oggi un controsenso. Anche se, al di là dei gusti, quella scelta sottolineava l’importanza di un’opera diretta da una donna che cercava di sperimentare, ibridando i generi. Peggio ancora era stato fatto a Venezia, sempre nel 2021, con il Leone d’oro assegnato allo scolastico, abbastanza anemico e borghese La scelta di Anne di Audrey Diwan, sia visto il livello complessivo del concorso sia tenendo conto che sul tema difficile dell’aborto esistevano già dei capolavori riconosciuti come Il segreto di Vera Drake dell’inglese Mike Leigh, Leone d’oro nel 2004, e 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni del romeno Cristian Mungiu, Palma d’oro a Cannes nel 2007. Soprattutto, questi premi hanno rischiato di essere una concessione volatile al #MeeToo, magari trascurando opere di prim’ordine dirette da cineaste.

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La cinematografia passata di Justine Triet si espone a qualche riserva, malgrado l’indubbia simpatia che ispira la regista. Le sue commedie ben confezionate sembrano espressione di una parte consistente dell’ambiente cinematografico, non solo francese, ormai completamente lontano dall’interclassismo, dalla critica alla società in generale e a quella borghese in particolare. Distante, soprattutto, dalle preoccupazioni quotidiane di tanti ragazzi. È invece un mondo concentratissimo su di sé, indulgente e un po’ compiaciuto delle proprie piccole nevrosi, mentre il mondo vive un momento di grande crisi. Se si pensa al tasso di critica alla borghesia nelle filmografie di Buñuel, Bergman o Chabrol, per citarne alcuni, si ha un’idea del contrasto tra molto cinema di ieri e di oggi.

Detto questo, dev’essere chiaro che siamo davanti a un grande film, di notevole finezza e forza, e che se, per l’ennesima volta, la rappresentazione è concentrata sulle problematiche della borghesia, c’è tuttavia il coraggio di virare con nettezza in favore dell’ambiguità delle cose. Il bello è che lo fa in una prospettiva femminista, quella sì senza ambiguità. Riuscendoci, nella sua dimensione più esplicitamente militante, anche molto bene. Ma che si voglia femminista senza ambiguità, è ancora apparenza. E anche per questo raggiunge una dimensione universale.

Riesce perfino a dire qualcosa di nuovo e profondo sul solito tema della finzione che si fonde con il reale. La protagonista è infatti una nota scrittrice che sbandiera il suo lavoro incentrato sull’autofiction. L’intreccio si fa qui a tal punto inestricabile da diventare non solo una sorta di specchio del reale e della finzione, ma una moltiplicazione di specchi più piccoli tra quelli principali, la madre e il figlio, dove una pallina – cioè la quasi inafferrabile interpretazione corretta del reale – rimbalza, svelando in modo continuo e misterioso nuove sfaccettature, quasi infinite.

Reinventando il film processuale, la regista ne fa anche un’opera di metacinema, facendo ascoltare o riascoltare da punti di vista diversi momenti di vita, tutti intimi, che corrispondono sempre, in questo film che comincia con una morte fuori campo, a quello che era fuori campo, visivo o audio che sia. In questo modo il cinema intimista, tipico della Francia, è destrutturato, così com’è destrutturata, vivisezionata, l’esistenza della protagonista. E quella di suo figlio, Daniel. Amplificata dai mezzi di informazione, la lettura univoca dell’accusa è a sua volta destrutturata e vivisezionata.

Così, quel che (ap)pare acquisito e difficilmente confutabile è rimesso continuamente in discussione, in un senso o nell’altro, in un vortice, una girandola caleidoscopica che sorprende sempre lo spettatore. La pallina rimbalza, incessantemente, quasi fino alla conclusione. A quel punto non solo ci si accorge di aver assistito, sia in diretta sia in differita, a un grande film sull’infanzia rubata, violentata, traumatizzata (più volte), ma anche alla lotta estrema di un adolescente per riappropriarsi il più possibile di quanto stanno cercando di sottrargli. Un ragazzo cieco, ma che sarà determinante nell’aiutare tutti a vedere meglio, a vedere oltre. Lo sguardo esterno di Triet, non a caso, si concentra sui volti di madre e figlio.

Se alla fine, molto faticosamente, una verità si afferma, nello spettatore si insinua anche il dubbio che il sistema messo a nudo si possa declinare, in altre occasioni, in altri contesti, in molti sensi diversi, anche del tutto opposti a quello qui rappresentato. Poiché ciò che è messo gradualmente in evidenza è che il fuori campo è anche sinonimo di momenti parziali, di estrapolazioni decontestualizzate. E che le sfumature sono fondamentali, proprio come nell’arte.

In modo inverso, per quanto si tratti di un giudizio soggettivo, sembra invece certo che con questa inedita anatomia una grande autrice sia nata. Dall’inizio alla fine, in ogni inquadratura, sequenza, dettaglio, si è mossa con la maestria di una funambola su un filo sottile. All’opposto di una rovinosa caduta.

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