Tutte le tensioni che attraversano le estetiche del cinema contemporaneo, le migliori come le peggiori, a Cannes si sono riflesse in maggioranza nel Concorso rispetto alle numerose sezioni parallele del festival, molto più omogenee. Di questo vero e proprio crogiolo, a sua volta ne è il riflesso il Palmarès voluto dalla giuria presieduta da Greta Gerwig, in un senso più positivo che negativo. Gran parte dei titoli premiati sono opere eccellenti, forse anche addirittura di svolta per il cinema. Compreso Anora, che ha vinto la Palma d’oro, ben più sottile di quanto sembri.
Ma prima di alcune considerazioni sul Palmarès, bisogna parlare degli ultimi film proiettati in Concorso, a cominciare da Il seme del fico sacro dell’iraniano Mohammad Rasoulof, un capolavoro. Rasoulof ha scelto di lasciare il suo paese dopo essere stato in carcere per due volte e un’ulteriore condanna ad altri otto anni, a cui si aggiungevano la fustigazione e il sequestro dei beni. Arrivato fortunosamente sul tappeto rosso di Cannes, ha raccontato al pubblico che uno dei carcerieri gli ha regalato una penna per raccontare anche la vergogna provata per via delle domande che i figli gli facevano quando rientrava a casa. Dunque, da un lato la prigione e dall’altro la famiglia, che allo stesso tempo rispecchia la società iraniana.
L’opera è un film-prigione, una metafora, ma allo stesso tempo è molto più sottile e sfaccettato. È una condanna implacabile di un regime teocratico da parte di un’intera società, vista dal microcosmo familiare. Ma è anche una polifonia in termini di senso, di significati veicolati, a cominciare dal fatto che rovescia le parti. Vera e propria forza della natura, Rasoulof si ribella dall’interno del film e distrugge tutto con una specie di esplosione di rabbia, ma controllata da una fredda metodicità: l’artista ribelle si lega all’azione civica del cittadino che reclama i suoi diritti. Lo strumento è un personaggio maschile che attraversa molte fasi, quello del giudice Iman promosso finalmente a giudice istruttore, il sogno di una vita.
A lungo il giudice è tuttavia preda di un tormento della coscienza: deve condannare a morte, su mandato del procuratore, una persona la cui colpevolezza non è affatto sicura. Il suo predecessore è stato rimosso perché non ha eseguito l’ordine. La moglie lo consiglia di lasciar perdere e di non accettare l’incarico. Il tormento interiore continua per diverso tempo e si ha l’impressione che il giudice si senta ingabbiato nella sua stessa libertà personale, rispecchiando così il sentimento interiore dello stesso Rasoulof, uno dei molti paradossi geniali del film.
A mano a mano i tornaconti personali e soprattutto questa sorta di entità esterna che condiziona tutto – il regime e la sua ideologia pervasiva – spingono il giudice ad accettare lo stato delle cose. Confortato dalla moglie, un personaggio ambiguo e al contempo deciso, il cui obiettivo è quello di mantenere l’ordine familiare, anche se in realtà equivale all’ordine patriarcale. Ma in casa irrompe la frattura generazionale, che equivale a una frattura epocale.
Le due figlie, una studente universitaria e l’altra di liceo, che si informano su internet e i social network, vivono in un’altra realtà. Gli scontri alla facoltà, in cui irrompe una violenza repressiva del tutto gratuita e dove in loro presenza è ferita un’amica che non aveva fatto nulla, sono ripresi e i video che girano sui telefoni creano due mondi paralleli, o due realtà non più conciliabili: quella ufficiale, virtuale e ipocrita dei genitori – il regime – e quella reale, dal basso, delle ragazze, la società. Ora è quest’ultima che comincia a essere pervasiva e a condizionare l’altra, le parti si rovesciano. Ora, il panico cresce in chi ha il potere.
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La madre si attiva con la moglie di un collega del marito per aiutare la loro amica nel frattempo arrestata, pur mantenendo immutato l’ordine delle cose. O almeno così crede. La paura pervade il regime: al giudice, come ai suoi colleghi, è data una pistola per difendersi dalle minacce. In seguito alle proteste sono anche diffusi sui social network i suoi dati personali, a cominciare da dove vive. La paranoia cresce in modo esponenziale quando una mattina la pistola scompare. Sarà l’inizio della fine del nucleo familiare, cioè del rapporto tra potere e società civile. Iman ha paura di chiunque gli si avvicini per strada o che semplicemente stazioni sotto casa sua. E soprattutto perde gradualmente fiducia verso la sua stessa famiglia.
A questo punto la finzione e la realtà s’incrociano definitivamente. I filmati che vediamo sono quelli reali seguiti all’assassinio di una ragazza, Mahsa Jina Amini, in reazione al quale è nato Donna, vita, libertà, forse uno dei movimenti femministi più incredibili di sempre, anche perché si è saldato alla richiesta della società iraniana di una libertà vera, piena.
Le Monde ha pubblicato una breve inchiesta sul nuovo cinema underground iraniano: montatrici di film che dopo la morte di Amini si rifiutano di montare le opere approvate dalla censura del regime e lavorano solo a quelli del circuito underground. Il regista era stato appena arrestato quando, nel 2022, è divampata la protesta.
Secondo Rasoulof tutti ne sono stati colti di sorpresa, compreso lui. Il regista ha potuto vedere chiaramente la paura del regime, la faglia nel muro ideologico sempre più ottuso. Ne è la dimostrazione, per il cineasta, un aneddoto, che ha raccontato in un’intervista al quotidiano francese Libération: un giorno una delle guardie carcerarie lo porta lontano dalle telecamere di sorveglianza per chiedergli se quando sarà il momento potrà almeno dire che non è mai stato maltrattato. Il regime è nel panico e reagisce in maniera sempre più folle e crudele.
Proprio come Iman da un certo momento in poi, quando l’essere umano si dissolve: divorato dentro, si muta in un’essenza maligna, l’essenza del regime. Ne nasce un secondo film in un altro luogo, fisico e astratto insieme, negli spazi aperti e che tuttavia somigliano sempre di più a un carcere, dove la metafora cede il posto all’allegoria, la denuncia programmata alla libertà della poesia, l’horror ad ambientazioni degne di uno spaghetti western. La prigionia cede il passo alla vera libertà, che equivale a una nuova consapevolezza della società, rappresentata dalle tre donne, le due figlie e una madre rinata.
È magnifico anche il film della cineasta indiana Payal Kapadia, grande rivelazione di questo Cannes. Lo è fin dal titolo, All we imagine as light (Tutto quel che immaginiamo come luce), allegorico e poetico insieme. È la sua prima opera di finzione, dopo un documentario sorprendente su una rivolta studentesca, A night of knowing nothing, presentato a Cannes nel 2021 alla Quinzaine des cinéastes.
Immerso in una luce blu perenne, che quasi tinge gli altri colori, e in comunione con il turchese del sari delle infermiere, prediligendo le ambientazioni notturne che si fanno sottilmente oniriche, tre solitudini femminili intergenerazionali sono messe a confronto. Nella seconda parte, dove ci si sposta lungo la costa del Konkan, negli spazi aperti la libertà interiore è conquistata con l’immaginario e i suoi fantasmi. Ma Kapadia ha una maniera assolutamente unica di registrare, inquadrare e fotografare gli ambienti. L’impressione è quella della nascita di un nuovo grande talento.
Chi invece crea un tutt’uno con l’immaginario di ieri, coloniale in primo luogo, e la realtà di oggi – con la finzione che ricostruisce ambienti esotici in studio e il documentario girato a distanza dal regista in Cina per via della pandemia di covid-19 – è il portoghese Miguel Gomes. Il suo Grand tour è un viaggio attraverso i luoghi – dalla Birmania alla Cina, passando per Singapore, la Thailandia, il Vietnam, le Filippine, il Giappone – e le ideologie estetiche e politiche del cinema. Grande sperimentatore formale, Gomes è un poeta e un cantore dell’eterogeneità delle immagini come specchio della realtà stessa.
Se l’unico grande film intriso della gravità delle cose del mondo, e con questo veniamo al Palmarès, è quello di Rasoulof, vincitore del Premio speciale ma Palma d’oro in pectore – arriverà in sala con Lucky red e Bim –, la vera Palma d’oro Anora (nelle sale con Universal) è comunque un capolavoro per come dosa in modo omogeneo elementi diversi (commedia sentimentale, film d’azione, humour): è in definitiva una grande opera sulla lotta di classe.
All we imagine as light – che vince meritatamente il secondo premio, il Grand prix – dovrebbe ora trovare un distributore italiano. Grand tour, al cinema con Lucky red, si aggiudica giustamente la Miglior regia. Entrambi indicano scelte di giuria intelligenti e coraggiose.
Assurdo invece aver premiato tutte e quattro le protagoniste di Emilia Pérez di Audiard (in sala con Lucky red): così si rischia di non lanciarne nessuna, mentre l’attrice trans Karla Sofía Gascón era quella che meritava di più il riconoscimento.
Il premio alla sceneggiatura a The substance di Coralie Fargeat (lo porta in sala I wonder pictures), che vede Demi Moore in quella che è forse l’interpretazione della sua vita, è invece il paradigma della perdita di profondità delle immagini – di sostanza, per citare il titolo del film – che attraversa Parthenope di Paolo Sorrentino, in parte Kinds of kindness di Yorgos Lanthimos e il pur notevole film di Audiard. E di cui Megalopolis di Coppola è la gran trasfigurazione.
C’è invece bisogno del ritorno del cinema delle atmosfere, dell’empatia con il mondo, di cui Cannes nelle altre sezioni era piena e di cui l’indiano – il festival era pieno di film belli di quel paese – All we imagine as light ne è la bandiera, il manifesto ideologico.
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