Una marcia a San Salvador per il 35° anniversario dell’assassinio dell’arcivescovo Óscar Romero, il 21 marzo 2015. (Jose Cabezas, Reuters/Contrasto)

Monsignor Óscar Arnulfo Romero sarà beatificato il prossimo 23 maggio a San Salvador. Lo ha deciso il papa sbloccando una pratica che era ferma da tempo nei corridoi della Congregazione per le cause dei santi. E se molti osservatori valutano il gesto di Bergoglio come un atto destinato ad aprire un cammino di riconciliazione nella storia del paese centroamericano e in quella della chiesa contemporanea, il caso del vescovo ucciso sull’altare il 24 marzo 1980 è in realtà ancora aperto. In primo luogo in Vaticano.

È infatti un dato non più messo in discussione che una potente fronda conservatrice all’interno della curia romana abbia ritardato e impedito la beatificazione di Romero. Due nomi spiccano sugli altri, quelli di due potenti cardinali colombiani dell’epoca Wojtyla: Alfonso López Trujillo, morto nel 2008, ex presidente del Pontificio consiglio per la famiglia, e Darío Castrillón Hoyos. Quest’ultimo è stato in passato a capo della Congregazione per il clero, poi ha guidato la commissione Ecclesia Dei, l’organismo vaticano che aveva in carico il negoziato con i lefebvriani. A Castrillón fu attribuita la débâcle mediatica di cui fu vittima Benedetto XVI quando fu revocata la scomunica ai quattro vescovi lefebvriani della Fraternità di San Pio X (2009): nel gruppo infatti era compreso (senza che il Vaticano prendesse provvedimenti) quel monsignor Richard Williamson le cui teorie antisemite e negazioniste dello sterminio degli ebrei divennero improvvisamente note in tutto il mondo.

Va ancora rilevato che i due porporati di origine colombiana sono considerati tra i king makers dell’elezione di Ratzinger nel conclave del 2005, il che ovviamente non stabilisce un nesso diretto tra il “no” a Romero e Benedetto XVI, ma la dice lunga sulle connessioni di potere che hanno segnato la vita della chiesa per circa 35 anni, da Wojtyla a Ratzinger. Il postulatore (cioè l’avvocato) della causa di beatificazione di Romero, monsignor Vincenzo Paglia, ha rilevato di recente che contro il vescovo di El Salvador in Vaticano erano arrivate montagne di carte contenenti accuse di ogni tipo. E poi bisogna tener presente il fatto che uomini chiave del pontificato wojtyliano – si pensi all’ex segretario personale del papa Stanisław Dziwisz, o all’ex segretario di stato Angelo Sodano – erano vicini a movimenti dell’ultradestra cattolica basata in America Latina, come i Legionari di Cristo.
In merito ad alcuni di questi aspetti il fondatore della Comunità di Sant’Egidio, Andrea Riccardi, ha scritto di recente sul Corriere della Sera: “Il cardinal López Trujillo lottò contro il riconoscimento del martirio di Romero: riteneva il prelato troppo ‘marxisteggiante’, e temeva che la sua beatificazione si sarebbe trasformata nella canonizzazione della teologia della liberazione, cui il cardinale si opponeva”.

Strano destino davvero quello di Romero, visto che ora una storiografia riconciliatrice spiega come Romero in realtà non aderì mai alla teologia della liberazione. L’ultraconservatore porporato colombiano aveva però su questo punto idee meno elaborate ma più chiare. Ancora da rilevare che Riccardi sottolinei un altro aspetto significativo: Benedetto XVI, dice, sbloccò la causa di Romero poco prima di dimettersi. Difficile sapere se effettivamente è andata così (se cioè le parole del papa dimissionario furono prese sul serio dall’apparato curiale), e tuttavia lo spunto è tutt’altro che irrilevante. Se Ratzinger lascia infatti il soglio di Pietro operando un gesto di rottura storico con la tradizione della chiesa e ammettendo, allo stesso tempo, l’impossibilità, per lui, di gestire la crisi gravissima in cui era precipitata l’istituzione, l’aver chiesto di sbloccare la causa di Romero farebbe parte di un processo autocritico dell’ex guardiano della dottrina che si separava definitivamente, diremmo così, dal proprio collegio elettorale.

Ancora su questo tema sono interessanti le recenti parole pronunciate dall’ex segretario di Romero, Jesús Delgado. Delgado conferma che tra i personaggi che in curia si opposero maggiormente alla beatificazione di Romero c’era appunto il porporato colombiano López Trujillo. Quest’ultimo, spiega Delgado, era un buon conoscitore dell’America Latina, “però dalla sua prospettiva”, e aveva il potere di esercitare un veto in quanto titolare delle questioni latinoamericane in Vaticano. López Trujillo, del resto, era stato chiamato da Wojtyla alla guida del Celam – la Conferenza dei vescovi latinoamericani, giudicata troppo irrequieta sul piano sociale e politico – per riportarla all’ordine. L’ex segretario di Romero, però, racconta anche un episodio legato al futuro papa Francesco. Nel 2007, durante la conferenza dei vescovi latinoamericani svoltasi nel santuario mariano di Aparecida, in Brasile, alla presenza di Ratzinger (un evento chiave nell’ascesa di Bergoglio che, nell’occasione, riuscì a mediare tra le varie anime dell’episcopato sudamericano conquistando ampio consenso), l’arcivescovo di Buenos Aires a proposito di Romero disse a Delgado una frase illuminante: “Se io fossi diventato papa, la prima cosa che avrei fatto sarebbe stata inviare López Trujillo a San Salvador a beatificare Romero”. C’è molto di papa Francesco in questa affermazione: intanto una sorta di cammino penitenziale pubblico per il cardinale colombiano e poi la prospettiva del pontificato ancora ben presente. È noto che Bergoglio era già stato l’avversario di Ratzinger nel conclave del 2005.

Molte storie insomma s’incrociano nella figura di monsignor Romero definito, tra le altre cose, martire della guerra fredda. Si tratta certo di un elemento indiscutibile del conflitto che segnava il mondo nel 1980, e tuttavia non va dimenticato che l’omicidio fu organizzato dal governo sostenuto dalle oligarchie locali e guidato dal famigerato Roberto D’Abuisson. La beatificazione di Romero fu annunciata da papa Francesco fin dalle prime settimane di pontificato in via informale; poi è arrivata la svolta. Di fatto aver riconosciuto che Romero è un martire ucciso in odium fidei (cioè per odio della fede cristiana, del Vangelo) costituisce, nella storia dell’America Latina, un cambiamento di fondo che spiega anche perché tuttora in Salvador si è registrata una certa opposizione alla beatificazione.

Il legame tra chiese e oligarchie cattoliche nel cono sud dell’America si spezza infatti definitivamente con Romero, dopo che già in Brasile, Cile, Argentina, Guatemala, Colombia, vescovi e sacerdoti si erano divisi tra opposizione alle dittature e aiuto ai perseguitati da una parte, e alleanza con gli apparati militari, i governi e le giunte che avevano preso il potere con la forza dall’altra. Il riconoscimento del martirio in odium fidei rappresenta dunque l’ammissione definitiva che quel conflitto ci fu e che la parte giusta era quella scelta da Romero e non l’appoggio alle dittature “cattoliche”. Del resto nel 1968 i vescovi latinoamericani riunitisi a Medellín, in Colombia, scelsero la famosa “opzione preferenziale per i poveri” portando a compimento l’apertura ai segni dei tempi affermata dal concilio Vaticano II. E forse per capire la novità del concilio bisogna definitivamente uscire da un eurocentrismo cattolico (a cui si contrappongono appunto le “periferie” bergogliane) e guardare all’impatto dirompente e drammatico che il Vaticano II ebbe sulla chiesa latinoamericana e sulla storia di tutta la regione. La reazione del cattolicesimo reazionario, d’altro canto, fu durissima e si organizzò in movimenti come Tradizione famiglia proprietà, (fondato da Plinio Corrêa de Oliveira in Brasile e poi diffusosi in molti paesi), che si saldarono a loro volta con le giunte militari sostenendo repressioni sanguinose.

In tale prospettiva è giusto oggi parlare di più teologie della liberazione. Ci furono preti che imbracciarono la causa delle guerriglie e delle rivoluzioni (l’esempio cubano era ancora lì, appena una manciata di anni addietro), e molti altri che decisero di stare come pastori dalla parte dei poveri; ci furono teologi che elaborarono uno specifico percorso per la chiesa latinoamericana, e molti vescovi e sacerdoti che, più semplicemente, con l’azione e la pratica fecero vivere quella sensibilità, quella scelta inequivocabile del concilio e di Medellín. Di questi fa parte Romero, che dunque aderì in pieno a quel fiume impetuoso di cambiamento nel quale, tra violenze e speranze di redenzione, si trovava coinvolta la chiesa del Sudamerica.

Romero certo non difendeva la guerriglia o la rivoluzione, voleva portare il paese fuori della violenza combattendo quella che lui stesso chiamava “l’ingiustizia”. Troppo spesso oggi vengono dimenticate o rimosse le sue parole sugli eccessi della ricchezza e della proprietà privata, le critiche alle aggressioni contro le cosiddette “organizzazioni popolari” o le denunce dei crimini compiuti nel paese elencati nel corso delle sue omelie che diventavano così strumento in grado di rompere la censura del regime. Romero si mobilitò perché vide le condizioni reali in cui si trovava il Salvador e perché, poco dopo la sua nomina, Rutilio Grande, il gesuita incaricato di aiutarlo e coadiuvarlo nel difficile lavoro che lo aspettava, fu assassinato dai militari. Un episodio che molti testimoni dell’epoca ricordano come determinante nel percorso dell’arcivescovo. Dopo Rutilio Grande, del resto, Romero vide cadere altri preti e catechisti e dopo di lui moriranno suore, gesuiti, in una scia di sangue che ha modellato la presenza del cristianesimo in Centroamerica. E non per caso quindi, nei giorni scorsi, è stata avviata anche la beatificazione di padre Rutilio, segno di una cambiamento voluto dal papa circa la direzione e il percorso che la chiesa deve seguire. Non sono finiti i vescovi alleati dei potenti, ma oggi è più chiaro quale sia il segno della testimonianza cristiana e quale il suo contrario, anche sotto il profilo teologico.

Sono bastati a monsignor Romero dunque solo tre anni – dal 1977, quando fu chiamato da Paolo VI alla guida della diocesi di San Salvador, al 1980, quando fu assassinato – per diventare martire e assurgere a simbolo globale, riconosciuto dalle Nazioni Unite e celebrato anche dalle altre chiese cristiane. Sotto il profilo storico è però importante ricordare che tra gli ultimi atti di Romero vi fu, nel febbraio del 1980, una lettera aperta indirizzata al presidente degli Stati Uniti dell’epoca, Jimmy Carter, nella quale l’arcivescovo di San Salvador chiedeva alla Casa Bianca di interrompere l’invio di armi al governo del Salvador (“dal momento che, come salvadoregno ed arcivescovo dell’arcidiocesi di San Salvador, ho l’obbligo di vegliare perché regnino la fede e la giustizia nel mio paese, le chiedo, se veramente vuole difendere i diritti dell’uomo, di impedire che venga fornito questo aiuto militare al governo salvadoregno; garantire che il suo governo non interverrà direttamente o indirettamente con pressioni militari, economiche e diplomatiche, nella determinazione del destino del popolo salvadoregno”).

L’appello non avrà seguito e certo Carter, al di là delle retoriche, non è stato il peggiore dei presidenti americani: condannò con durezza l’omicidio di Romero, ma quell’appello rimase senza risposta. La logica della guerra fredda era appunto un’altra. Ancora nel febbraio del 1980 l’arcivescovo viene candidato al Nobel per la pace, ma è nell’ultima omelia, pronunciata il 23 marzo 198o, che le parole di Romero lasciano ancora il segno. È un testo lungo nel quale, come sempre avveniva, sono rese pubbliche anche tutte le notizie di violenze verificatesi nel paese, che si conclude però con un celebre appello rivolto alle forze armate del Salvador.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

“Vorrei fare un appello speciale agli uomini dell’esercito, in concreto alla base della Guardia nazionale, della polizia, delle caserme”, disse Romero. “Fratelli, siete del nostro stesso popolo, perché uccidete i vostri fratelli campesinos? Davanti all’ordine di uccidere deve prevalere la legge di Dio che dice: non uccidere. Nessun soldato è obbligato a obbedire a un ordine che va contro la legge di Dio. Una legge immorale non ha l’obbligo di essere osservata”. “È tempo”, aggiungeva l’arcivescovo, “di recuperare la vostra coscienza e di obbedire prima alla vostra coscienza che all’ordine del peccato. La chiesa, che difende i diritti di Dio, la legge di Dio, la dignità umana, la persona, non può restare silenziosa davanti a tanta ignominia”. “Vogliamo che il governo comprenda che non contano niente le riforme, se sono tinte di sangue”, concludeva Romero solo poche ore prima di essere ucciso. “In nome di Dio, dunque, e in nome di questo popolo sofferente, i cui lamenti salgono fino al cielo ogni giorno più clamorosi, vi supplico, vi scongiuro, vi ordino in nome di Dio: cessi la repressione!”.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it