“Io, Matteo, venuto per mare dal grande occidente, entrai in Cina ammirando le nobili virtù del figlio del cielo dei grandi Ming e gli insegnamenti tramandati dagli antichi re. Dimorai al di là del monte dei Susini per diverse mutazioni di astri e di nevi”. Nel 1595, il gesuita Matteo Ricci si esprimeva così nel proemio che apriva il breve trattato dal titolo Dell’amicizia, scritto allo scopo di mostrare come tra la cultura europea e quella cinese vi fossero più punti in comune di quanto si potesse immaginare. L’opera, tra l’altro, ebbe un buon successo.
Oltre 400 anni dopo, la Santa Sede e Pechino hanno raggiunto il primo accordo per la nomina condivisa dei vescovi nel gigante asiatico dopo negoziati lunghi, faticosi, segnati da passi indietro, conflitti, progressi, opposizioni interne da entrambe le parti. Si tratta di un accordo “provvisorio”, così viene definito, suscettibile dunque di ulteriori miglioramenti e modifiche, un accordo necessariamente imperfetto e in fieri che tuttavia stabilisce un principio ben preciso: d’ora in avanti la nomina dei vescovi in Cina dovrà essere frutto di un comune accordo tra il papa e le autorità di Pechino. Tra i primi provvedimenti presi da Francesco in relazione all’intesa raggiunta, c’è stato l’immediato riconoscimento di sette vescovi “ufficiali ordinati senza mandato pontificio” i quali sono stati riammessi “nella piena comunione ecclesiale”; inoltre il papa ha costituito una nuova diocesi.
Per capire la complessità della questione bisogna fare un passo indietro. Alla fine degli anni cinquanta del secolo scorso, in Cina venne istituita una chiesa parallela a quella di Roma, guidata dal regime attraverso un’Associazione cattolica patriottica (si parla per questo anche di chiesa patriottica), dotata di una propria gerarchia, di un clero, di strutture autonome. Accanto a questa, però, è sempre vissuta pure una chiesa fedele al papa, a volte clandestina – e vittima in alcuni frangenti di persecuzioni o limitazioni della libertà – in altri casi tollerata o infine accettata de facto. Anche la chiesa patriottica, in realtà, ha avuto relazioni con la Santa Sede, tanto che diversi dei suoi esponenti, con il tempo, sono stati riconosciuti come vescovi da Roma. In questo contesto così intricato le “colombe” di entrambe le parti – in Cina e in Vaticano – e gli ultimi due pontefici in particolare, hanno spinto per un accordo.
Quel che conta, per il Vaticano, è aver stabilito un accordo di massima con un soggetto diventato oggi una delle prime superpotenze del mondo
Sul fronte contrario si trovava, da parte ecclesiale, chi riteneva non fosse possibile nessun negoziato con un regime che limitava la libertà religiosa e quindi l’autonomia stessa della chiesa; e dall’altra, negli alti ranghi del regime cinese, quanti consideravano il cattolicesimo una sorta di cavallo di Troia occidentale, sospettato di diffondere, subdolamente, il virus del neocolonialismo. Entrambe le argomentazioni portavano con sé una buona dose di pregiudizio e una parte di fondatezza, quantomeno visti determinati precedenti storici. E tuttavia le ragioni del dialogo alla fine hanno prevalso sancendo una svolta importante.
“L’accordo l’ho firmato io”, ha detto papa Francesco sul volo che lo riportava da Tallinn a Roma commentando con i giornalisti la notizia dell’intesa con Pechino. “Le lettere plenipotenziarie le ho firmate io. Io sono il responsabile, gli altri (i diplomatici vaticani, i precedenti pontefici) hanno lavorato per più di dieci anni. Non è un’improvvisazione, è un vero cammino”. Francesco, dunque, si assume la piena responsabilità dell’accordo e ne ricostruisce un percorso più lungo del suo pontificato, ben consapevole che, come tutti i negoziati che contano, anche questo inevitabilmente suscita critiche e dubbi. “Voi sapete che quando si fa un accordo di pace, ambedue le parti perdono qualcosa”, ha aggiunto. “Questa è la legge: ambedue le parti. Si è andati con due passi avanti, uno indietro, due avanti e uno indietro. Poi mesi senza parlarsi. È il tempo di Dio che somiglia al tempo cinese. Lentamente, la saggezza dei cinesi”. “Non dimentichiamo che in America Latina per 350 anni erano i re del Portogallo e della Spagna a nominare i vescovi”, ha poi osservato il papa. “Non dimentichiamo il caso dell’impero austro-ungarico. Altre epoche grazie a Dio, che non si ripetono”. Quello che è stato stabilito con la Cina “è un dialogo sugli eventuali candidati, ma nomina Roma, nomina il papa, questo è chiaro. E preghiamo per le sofferenze di alcuni che non capiscono o che hanno alle spalle tanti anni di clandestinità”.
La chiesa di Roma dovrà quindi accettare anche il ruolo del governo di Pechino nelle nomine? Sì, fanno notare in Vaticano, e sarà forse un limite, ma che ha pure un’infinita serie di precedenti nelle relazioni tra la Santa Sede e gli imperi, i sovrani, in qualche caso i governi democratici. Quel che conta, per il Vaticano, è aver stabilito un accordo di massima – su un aspetto però decisivo, come quello delle nomine episcopali – con un soggetto diventato oggi una delle prime superpotenze del mondo dove vive il 60 per cento della popolazione mondiale, il nuovo rivale economico e geopolitico degli Stati Uniti (quindi anche il nuovo interlocutore della Casa Bianca), un king maker imprescindibile in molti degli scenari caldi del mondo e infine una potenza politica di prim’ordine non più chiusa in un orgoglioso isolamento ma da tempo protagonista a tutti gli effetti della scena internazionale sotto la guida attenta di Xi Jinping.
D’altro canto, ha sottolineato il segretario di stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin, “l’obiettivo della Santa Sede è un obiettivo pastorale, cioè aiutare le chiese locali affinché godano condizioni di maggiore libertà, autonomia e organizzazione, in modo tale che possano dedicarsi alla missione di annunciare il Vangelo e di contribuire allo sviluppo integrale della persona e della società”.
È indubbio, tuttavia, che l’accordo raggiunto ha un valore di natura più profonda: la Cina decide di fidarsi, di aprirsi – sia pure con cautela e mantenendo un controllo effettivo sul fenomeno religioso – al cristianesimo e ai suoi valori, alla sua tradizione spirituale. La Santa Sede vede schiudersi – per la prima volta nella storia – le porte di un paese immensamente popolato, ricchissimo di tradizioni e di storia; per questo non solo accetta di collaborare con il regime, ma prova a seguire una strada originale di inculturazione del Vangelo per cui il cristianesimo dovrà, almeno un po’, adattarsi alla cultura e alla sensibilità cinese, se vorrà veramente penetrare in un altro mondo e non continuare a restare fenomeno tutto sommato di contorno e marginale.
Separare politica e religione
La sfida a ben guardare è enorme per entrambi i contraenti del patto. “Lo spirito di questo accordo è stato proprio di separare politica e religione. Un accordo politico con la Cina – in Cina – sarebbe stato infatti impossibile”, ha spiegato in questi giorni Francesco Sisci, sinologo, giornalista, docente universitario, autore di un’importante intervista al papa sulla Cina. “Il partito comunista cinese ha ammesso di non avere autorità religiosa, e la Santa Sede ha detto di non avere autorità politica. L’accordo comincia a coprire le zone grigie in maniera rispettosa delle competenze di ciascuno”.
Non va dimenticata, in tal senso, la lettera di Benedetto XVI ai cattolici e alla chiesa cinesi del maggio 2007 quando, in un passaggio decisivo dedicato proprio al tema della nomina dei vescovi, affermava: “Il papa, quando concede il mandato apostolico per l’ordinazione di un vescovo, esercita la sua suprema autorità spirituale: autorità e intervento, che rimangono nell’ambito strettamente religioso. Non si tratta quindi di un’autorità politica, che si intromette indebitamente negli affari interni di uno stato e ne lede la sovranità”. Appunto questo era un nodo nevralgico: la libertà religiosa intesa come una delle espressioni fondamentali dei diritti dell’uomo, diventava – in una prospettiva differente – ingerenza negli affari interni di un paese.
In un commento all’accordo pubblicato dalla Civiltà Cattolica che ha appena dedicato un numero monografico ai rapporti fra la chiesa e la Cina, il direttore della rivista, padre Antonio Spadaro, ha scritto: “È anche necessario ammettere che la storia del rapporto tra occidente e Cina è stato profondamente segnato dal colonialismo e dall’imperialismo occidentale. Pensando al rapporto tra la Cina e la chiesa cattolica si può dire che questa ferita storica ha fatto sorgere problemi, ansie, paure reciproche. È necessario prendere tempo per costruire un rapporto di fiducia tra Cina e Santa Sede, ad esempio. E questa è la cosa più importante: la fiducia”. Spadaro, tuttavia, non sfugge al tema forse più delicato della questione, ovvero quello del rapporto fra la chiesa e il regime comunista cinese. “La chiesa cattolica cinese è pure chiamata a ridefinire il suo ruolo e le sue relazioni con il Partito comunista e con la sua ideologia. Questo non significa che la Chiesa debba essere sempre d’accordo con la politica e con i valori del Partito, ma piuttosto che essa deve trovare soluzioni per continuare la sua missione e il suo ministero in Cina”.
D’altro canto, ha osservato su Avvenire, il quotidiano della Cei, lo storico Agostino Giovagnoli, “accettando di favorire la riconciliazione dei cattolici cinesi con il papa e tra loro, le autorità di Pechino hanno aperto la strada all’ingresso dell’universalismo cattolico in Cina. Hanno cioè riconosciuto l’esistenza di questo singolare universalismo religioso, morale e culturale, non l’hanno considerato lesivo della sovranità nazionale cinese e anzi hanno ritenuto che può portare beneficio al loro paese. Non è un accordo di potere: i cinesi non l’avrebbero sottoscritto”. “È, al contrario – ha spiegato Giovagnoli – un sorprendente riconoscimento che anche le forze spirituali hanno un peso nella storia. La chiesa cattolica, così, è entrata in Cina dalla porta principale”. Troppa enfasi? Si vedrà, di fatto i dettagli dell’accordo – per l’appunto provvisorio – non sono stati diffusi, segno che da entrambe le parti si è ben coscienti della delicatezza della faccenda e delle opposizioni che incontra.
Al medesimo tempo, e per quanto provvisorio, l’accordo con la Cina rappresenta un successo indubbio del pontificato di papa Francesco, particolarmente significativo, inoltre, per il legame storico esistente tra i gesuiti e la missione evangelizzatrice in Asia. Se, allargando l’orizzonte, si considera che Bergoglio ha anche incontrato Kirill, il patriarca ortodosso russo, compiendo un primo importante passo per superare quella sorta di millenaria guerra fredda intercristiana che divideva, e in parte divide, Roma da Mosca (diventando una guerra calda in Ucraina), si possono cominciare a intravedere alcuni degli snodi decisivi di un pontificato che, fra mille problemi e contraddizioni, sta segnando il suo tempo.
In questo quadro va pure letto il successo nelle nuove relazioni diplomatiche tra Stati Uniti-Cuba di cui Bergoglio è stato in buona misura artefice. O anche – per contrasto – la distanza profondissima e inedita apertasi tra la Santa Sede e la Casa Bianca guidata da Donald Trump e anticipata nei contenuti dal celebre discorso del papa al congresso di Washington – il primo di un vescovo di Roma in quella sede – nel settembre del 2015. E pur considerando che Francesco ha lavorato portando a compimento, in modo originale, percorsi cominciati dai suoi predecessori, c’è una traccia specifica bergogliana in quanto sta accadendo che scaturisce da un’idea di fondo: portare il cristianesimo oltre le colonne d’Ercole dell’Europa e del nord del mondo per provare a rigenerarlo e quindi salvarlo. Sfida improba, un processo aperto per dirla nel linguaggio di Francesco, e dal finale tutt’altro che scontato.
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