*Piazza Rabaa Adawiya, il Cairo, 14 agosto 2013 (Mohamed Abd El Ghany, Reuters/Contrasto) *

All’inizio della cosiddetta “primavera araba” molti osservatori europei hanno accostato le sollevazioni contro i regimi autoritari in Nord Africa e Medio Oriente a quelle che hanno abbattuto i regimi comunisti europei nel 1989. La speranza era che come in quel caso fossimo di fronte a una rapida ondata di democratizzazione e sviluppo, alimentata da una nuova generazione di giovani ispirati dai valori occidentali.

Come notava la vicedirettrice egiziana dell’Fmi Nemat Shafik nel maggio 2012, però, nel 1989 “l’economia mondiale era in pieno sviluppo, l’Unione europea era pronta ad accogliere tra i suoi membri i paesi in transizione e i finanziamenti esterni erano facilmente accessibili”. La transizione dei paesi arabi doveva invece avvenire in un contesto molto più difficile. Senza una “primavera economica” ad accompagnare il rinnovamento politico, la primavera araba si sarebbe conclusa con un fallimento, ma il peso delle profonde riforme necessarie avrebbe gravato interamente sulle casse già vuote di paesi scossi dall’instabilità.

Dopo il sanguinoso ritorno dei militari in Egitto il fallimento è sotto gli occhi di tutti. Il paragone più calzante si è rivelato quello con un altro grande ciclo rivoluzionario senza successo, la “primavera delle nazioni” del 1848, proposto tra gli altri da Robert D. Kaplan e da Jonathan Steinberg.

Delle notevoli analogie tra i due grandi eventi ce n’è però una che è passata inosservata: entrambi sono stati il culmine esplosivo di un lungo processo di riequilibrio tra vecchi e nuovi sistemi economici, politici e sociali. Nel 1848 il capitalismo borghese trionfante spingeva per superare il sistema feudale e affermare il suo modello, basato sulla democrazia e sul liberalismo. Nel 2011, invece, la crisi economica ha coronato una lunga fase di obsolescenza e logoramento di regimi autoritari risalenti alla Guerra fredda, ma la classe media che avrebbe dovuto sostenere lo sviluppo di un modello di tipo occidentale era troppo esigua e indebolita dalla stessa crisi. La guida del processo è passata così agli islamisti, che non risentono delle difficoltà economiche e ne sono invece rafforzati.

Come a metà ottocento, anche stavolta i tempi non erano maturi e i movimenti islamici stanno tornando in clandestinità di fronte a un’ondata reazionaria altrettanto rapida. I paesi del Golfo, che pure avevano cercato di cavalcare il processo, si sono resi conto della sua reale portata e hanno deciso di sostituirsi all’Europa e agli Stati Uniti nel ruolo di padrini dei gendarmi autoritari dell’ordine regionale. Di fronte ai 12 miliardi di dollari offerti ai generali egiziani, i pochi spiccioli di aiuti bloccati dall’Ue come “forte risposta simbolica” dimostrano in modo quasi comico quanto il suo ruolo sull’altra sponda del Mediterraneo sia ormai meno che marginale.

Se davvero voleva raccogliere i frutti di una primavera di democrazia e sviluppo, l’Europa avrebbe dovuto sotterrarne i semi quando i tempi erano favorevoli, sostenendo quelli che ne sarebbero stati i protagonisti invece di dividersi tra la complicità con regimi dittatoriali corrotti e iniziative velleitarie come l’Unione per il Mediterraneo. Ora è tardi. Questa primavera araba è probabilmente agli sgoccioli, ma - come dopo il 1849 - la dinamica storica che l’ha prodotta continuerà a scorrere sotto terra. I soldi degli sceicchi non basteranno a risolvere le difficoltà strutturali dei paesi arabi e la resa dei conti con i movimenti islamici è solo rimandata. Ma noi europei possiamo stare tranquilli: in questa storia non avremo più nessuna parte.

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