Il nuovo disco dei The Smile è come una ragnatela. Mentre lo ascolti, ti sembra di restare impigliato nelle trame intessute dal gruppo britannico. Wall of eyes, il secondo album (in uscita il 26 gennaio) del trio che riunisce le due principali menti creative dei Radiohead (Thom Yorke e Jonny Greenwood) insieme a un batterista di formazione jazz (Tom Skinner), si nutre quasi sempre di piccoli dettagli, senza effetti speciali, e attinge alla ripetizione come fonte di psichedelia.
Per questo richiama alla mente un passaggio di Future days, un libro nel quale il giornalista David Stubb descriveva il krautrock, la musica sperimentale tedesca degli anni settanta a cavallo tra rock ed elettronica che Yorke e Greenwood considerano una delle loro principali fonti d’ispirazione: “Non c’entrano le canzoni. È una questione di trama, più che di testo”, ha scritto Stubb. L’ipnosi che band come i Can e i Neu! inducevano nei loro ascoltatori era creata proprio con la ripetizione ossessiva di pochi elementi, che innescavano un respiro quasi cosmico.
Nei nuovi brani degli Smile c’è un approccio di questo tipo, anche se è rivolto più al pop e si poggia come sempre sulla voce mutevole di Yorke, che suona più matura che mai. Dietro di lui si agitano incastri di batteria, chitarra, basso e archi capaci di muoversi come un corpo unico. A tratti gli omaggi al krautrock sono evidenti, come nella seconda parte del brano Read the room (un pezzo che nella prima parte sembrava il più vicino alle atmosfere di album del passato, come Ok computer) e in quella centrale di Under our pillows, in cui la chitarra di Greenwood si fa quasi arabeggiante. Gli archi arrangiati dal chitarrista, che da anni è un apprezzato autore di colonne sonore cinematografiche, sono presenti in quasi tutti i pezzi, ma s’inseriscono alla perfezione nel resto della trama sonora, e omaggiano compositori di riferimento come Olivier Messiaen e Krzysztof Penderecki.
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Wall of eyes, il brano che dà il titolo al disco e lo apre, fa pensare a In rainbows e A moon shaped pool per come gioca con i tempi dispari, e suona come una bossa nova inquietante, in cui Yorke sembra riflettere sul nostro rapporto malato con la tecnologia (“Down a peg or two we all go /behind a wall of eyes / of your own device”). Tra i momenti migliori in assoluto c’è anche Teleharmonic, splendido bozzetto psichedelico in cui sintetizzatori alla Brian Eno aprono la strada a un finale dove svetta addirittura un flauto, mentre il cantante evoca droni in volo su un mare freddo, sepolture, fuoco e ghiaccio.
In Friend of a friend, forse la canzone più pop del lotto, vengono fuori altri due temi dai quali non si può prescindere per capire Wall of eyes: il jazz e i Beatles. È dai tempi di Kid A che Yorke e Greenwood seminano indizi della loro passione per questo genere, dagli omaggi ad Alice Coltrane in Motion picture soundtrack alle citazioni di Charles Mingus nel selvaggio finale di The national anthem. E, in questo senso, il secondo disco degli Smile ha un approccio molto vicino al jazz, a partire dalle ritmiche suonate da un Tom Skinner molto più a suo agio rispetto al precedente A light for attracting attention.
Skinner arricchisce con il suo tocco swing proprio brani come Friend of a friend, che con quei glissati al tempo stesso fa pensare a un omaggio ai Fab Four e dei fiati che ricordano la sottovalutata b-side dei Radiohead The daily mail. Del resto Wall of eyes è stato registrato in parte a Oxford e in parte negli studi di Abbey Road con il contributo della London Contemporary Orchestra. È impossibile che il trio non abbia sentito l’influenza della storia che si nasconde dietro quelle pareti. O che magari non abbia avuto negli occhi e nelle orecchie il meraviglioso documentario Get back.
Uno delle cose apprezzabili del disco, prodotto da Sam Petts-Davies e non dal solito Nigel Godrich, è la mancanza di punti deboli evidenti. Certo, non ci sono brani in grado di diventare inni come succedeva ai tempi dei Radiohead (uno status a cui brani del lavoro precedente, come Skrting on the surface e Open the floodgates, quantomeno provavano ad avvicinarsi), ma gli otto pezzi di Wall of eyes suonano molto organici, compatti. Perfino una canzone poco brillante dal punto di vista compositivo come I quit scorre liscia, grazie a un arrangiamento di classe, quasi un trip hop orchestrale.
Sul finale arrivano altri due momenti da ricordare: in Bending hectic Yorke esplora ancora una volta il suo rapporto complicato con le auto (i fan ricorderanno Airbag e Killer cars, tra le altre) e racconta la storia di un uomo (lui?) che sta guidando una macchina d’epoca su una strada di montagna in Italia con una persona al suo fianco. A un certo punto il protagonista comincia a perdere il controllo del veicolo. Mentre si avvicina al precipizio, guarda il paesaggio, ammirato, e ha quasi la tentazione di togliere le mani dal volante e lasciarsi andare nel vuoto. Nel ritornello il cantante cita addirittura L’Amleto di Shakespeare, e poi il pezzo ha una brusca evoluzione, che non è chiaro se sia la descrizione della caduta o di una sterzata per mettersi in salvo. Prima c’è un omaggio orchestrale al finale dissonante di A day in the life (ancora i Beatles), poi arriva un muro distorto di suono, quasi in stile Mogwai. Ai primi ascolti la seconda parte di Bending hectic suona un po’ troppo carica, ma tutto sommato si lega abbastanza bene con il lato emotivo del pezzo.
Sul finale del disco arriva un altro dei momenti migliori, la ballata You know me!, guidata da un riff di pianoforte e da una batteria elettronica. Yorke canta in falsetto, si fa aiutare ancora una volta dalla London contemporary orchestra e fa venire in mente il George Harrison più esoterico e indianeggiante di Within you without you e Inner light, anche se qui non ci sono strumenti indiani. Oppure una Tomorrow never knows rarefatta. Una conclusione perfetta.
Wall of eyes è la prova che gli Smile sono qualcosa di più di un progetto parallelo. Che siano la pietra tombale sui Radiohead non possiamo saperlo (stando alle dichiarazioni dei diretti interessati non dovrebbe essere così), né abbiamo certezze su un eventuale terzo album. Sappiamo che saranno in tour, anche in Italia, per almeno una data. Ma questo disco dimostra che, dopo il buon esordio del 2022, la band ha trovato una forma compiuta, riprendendo un discorso che sembrava interrotto dai tempi di The king of limbs, quando la band sembrava aver trovato nuove strade prima di tornare alla forma più classica e forse meno intrigante di A moon shaped pool.
Se prima gli Smile potevano sembrare i nuovi Radiohead, ora sembrano semplicemente gli Smile. Se cercate una Paranoid android o una Just qui sicuramente non la troverete. Ma se inseguite musica suonata con classe e passione, capace di edificare nuovi ponti tra il pop e la sperimentazione, la troverete sicuramente. E si ha l’impressione che Yorke e Greenwood si divertano davvero a suonare con Skinner, come se avessero trovato nuova linfa.
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