“Ci sono parole che la politica dovrebbe pronunciare con più cautela, soprattutto se vengono brandite contro un avversario, prese in prestito per descrivere uno stato delle cose, urlate per stupire. Si trasformano invece in banali e bieche metafore che stridono come unghie sul vetro”.

Il 18 gennaio il vicedirettore di Repubblica Dario Cresto-Dina ha invitato i politici italiani a usare con più moderazione la parola cancro “per marchiare degenerazioni sociali, economiche e politiche”, un uso che “ferisce i malati e chi li cura”. Pochi giorni prima Tomàs Delclós, il difensore dei lettori del País, aveva risposto alle lamentele di una lettrice guarita dal cancro e stufa di sentire quella parola “associata a situazioni tragiche che fanno prevedere un finale drammatico”.

L’uso in senso figurato, spiega Delclós, non è sbagliato. Il problema è l’accumulo, che “logora l’impatto concettuale dell’espressione, la trasforma in un cliché”. Nel 1946, in un saggio intitolato

Politics and the english language, George Orwell metteva in guardia contro “le metafore trite che hanno perso ogni potere evocativo e sono usate solo per risparmiarsi la fatica di inventare un’espressione nuova”. I cliché, spiega il libro di stile dell’Economist, “intorpidiscono il cervello del lettore, invece di stimolarlo”.

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