Philip Roth, I fatti. Autobiografia di un romanziere
Einaudi, 204 pagine, 18,50 euro
È un libro del 1988 (ottima la traduzione di Mantovani) e fa parte del recupero einaudiano di tutta l’opera di Roth, di cui il titolo precedente è Quando lei era buona, un forte e “tradizionale” romanzo del 1967, in nuova traduzione, sulla provincia statunitense e su una coppia difficile.* I fatti* nasce da un periodo di depressione, riguarda momenti, per Roth essenziali, della sua biografia, ed è aperto da una lettera a Zuckerman, il consueto alter ego dell’autore, con relativa e demistificante risposta finale.
Non c’è nulla, che già non sapessimo da dieci altri libri, perché l’infaticabile Roth non ha mai smesso di scrivere di sé, di una vita priva in realtà di fatti rilevanti (e si amano sempre di più, con l’età, gli scrittori che non sono o non sono stati solo scrittori). Si potrebbe anzi dire che la vita di Roth è piuttosto noiosa e aggiungere che i suoi lavori migliori sono stati quelli meno ossessionati dalla biografia. Zuckerman ha svolto la funzione di una critica dei limiti del personaggio Roth, analizzati e volentieri smascherati, ma troppo interna.
Da
I fatti non scopriamo niente di nuovo su Roth, il cui capolavoro rimane Pastorale americana, anche se l’influenza maggiore l’hanno avuta proprio i suoi, un tempo divertenti, tormentoni che, da Woody Allen in poi, hanno stimolato una letteratura ossessivamente autoreferenziale.
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