Caro bibliopatologo,
fin dalla giovane età sono stato un appassionato lettore, provando al contempo a cimentarmi spesso e volentieri anche con la scrittura. È il mio bisogno di scrivere a spingermi a leggere, oppure è la passione per la lettura a oltrepassare i suoi naturali confini portandomi necessariamente a riversare tale sconfino nella scrittura?

-Paolo C.

Caro Paolo,
la tua lettera mi ha riportato alla mente le prime pagine di un vecchio libro di Elaine Scarry, On beauty and being just. Quando siamo in presenza di un bel ragazzo, di un fiore o di un uccello, scriveva Scarry, ci accade qualcosa di molto particolare. Non ci limitiamo a guardare. Quella percezione sembra incitare, o addirittura richiedere, un atto di riproduzione. “Dice Wittgenstein che quando l’occhio vede qualcosa di bello, la mano vuole disegnarlo. La bellezza fa nascere copie di sé stessa”. Questa generazione è incessante:

La bellezza, come confermano sia il Simposio di Platone sia la vita quotidiana, stimola il concepimento di figli: quando l’occhio vede qualcuno di bello, tutto il corpo vuole riprodurne la persona. Ma stimola anche – come Diotima dice a Socrate – il concepimento di poesie e leggi, le opere di Omero, Esiodo e Licurgo. (…) Così la bellezza di Beatrice nella Vita nova impone a Dante di scrivere un sonetto, e la scrittura di quel sonetto stimola la scrittura di un altro sonetto.

E così via, all’infinito. La risposta giusta al tuo dilemma, quindi, è probabilmente la seconda: è la lettura di cose belle a istigare la tua voglia di scrivere. Il motto latino caro a Nietzsche, aut liberi aut libri (o si fanno figli o si fanno libri), spesso citato per suggerire che le due vocazioni di genitore e di scrittore si conciliano male o addirittura si escludono, si potrebbe riformulare in modo meno tragico come vel liberi vel libri, senza farne un bivio fatale. Non solo si possono fare sia bambini sia libri, ma le due forme di generazione hanno alla radice uno stesso impulso, che è quello di portare alla luce copie della bellezza.

Certo, i bambini sono per definizione tutti belli (o comunque dobbiamo fingere di crederlo), ma che fare se il tuo libro vien fuori uno sgorbio? La risposta la trovi nell’incipit di un altro saggio, Seminario sui luoghi comuni di Francesco Pacifico:

Sono almeno dieci anni che ricopio pagine di romanzi che amo. Riscrivendole, mi passano per un attimo nelle punte delle dita e finiscono su un file del computer come fossero cose mie. Per certi versi, è la stessa sensazione che si prova suonando il riff di Johnny B. Goode o Day Tripper. La differenza è che per copiare un riff devi saper suonare la chitarra, magari anche bene, quindi un po’ la sensazione di onnipotenza te la sei guadagnata. Ricopiare un paragrafo di Flaubert invece è un puro autoregalo e ti dà la sensazione di essere diventato di colpo un vero scrittore. La cosa non ti trasforma in Flaubert, ma lascia qualcosa. Le dita possono incominciare a indispettirsi se ritorni alle tue frasi abborracciate. Qualcosa viene trattenuto, e continuando a rubare dai classici ricopiando belle pagine, magari la tua scrittura migliora.

La differenza tra libri e figli, semmai è un’altra: so di scrittori processati per plagio, ma nessuno, vedendo tua figlia, ti accuserà di aver fatto una copia in miniatura di tua moglie.

Il bibliopatologo risponde è una rubrica di posta sulle perversioni culturali. Se volete sottoporre i vostri casi, scrivete a g.vitiello@internazionale.it.

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