Dall’acquisto dei casinò del New Jersey all’ipotesi di comprare la Groenlandia, gli affari immobiliari di Donald Trump sono sempre stati caratterizzati da una pessima tempistica. Gli Stati Uniti, probabilmente, avrebbero potuto acquistare la Groenlandia dalla Danimarca nel 1917 (quando hanno effettivamente rilevato le isole Vergini dai danesi). Ora è palesemente troppo tardi.

Comunque sia, l’ultima idea discutibile di Trump ci fornisce un pretesto per metterci al passo su cosa è accaduto negli ultimi tempi in Groenlandia. La faccenda è interessante. Il presidente degli Stati Uniti probabilmente non ne è al corrente (anche perché è raro che legga i rapporti dell’intelligence) ma nel novembre 2017 il primo ministro della Groenlandia, Kim Kielsen, ha guidato una delegazione del governo a Pechino in cerca di investimenti cinesi.

La Groenlandia, l’isola più grande del mondo, non è ancora del tutto indipendente, ma gode di un’autonomia rispetto alla Danimarca in ogni ambito fatta eccezione per la politica estera e la difesa. Kielsen, nel suo viaggio a Pechino, sperava soprattutto di ottenere investimenti cinesi nel settore minerario, ma ha anche provato a portare a casa un’offerta cinese per la costruzione di tre aeroporti moderni sull’isola, attualmente dipendente da piste risalenti alla seconda guerra mondiale.

La mossa del governo della Groenlandia ha scatenato il terrore all’interno della Nato, con visioni da incubo di un indebitamento dell’isola nei confronti delle banche cinesi talmente profondo da permettere alla Cina (autoproclamata “nazione vicina all’Artico”) di far decollare aerei militari dai nuovi aeroporti.

L’esercito degli Stati Uniti, che mantiene una grande base aerea a Thule, nella Groenlandia del nord, è andato nel panico. Washington ha invitato calorosamente il governo danese, che fornisce i due terzi del bilancio della Groenlandia, a scongiurare la minaccia. In precedenza da Copenhagen era arrivato il rifiuto a finanziare gli aeroporti sull’isola, ma nel 2018 il governo danese ha improvvisamente offerto al governo dell’isola prestiti con tassi bassissimi. Fine del panico.

A quel punto il governo di Kielsen nella piccola capitale di Nuuk (17mila abitanti) era già caduto, ma il suo partito Siumut aveva vinto le elezioni di aprile ed è tornato al potere, rimettendo sul tavolo la faccenda delle miniere cinesi in Groenlandia.

L’impatto del mondo moderno sulla cultura inuit è stato distruttivo come in tutti gli altri casi

Attualmente, nella Groenlandia del sud, esiste una miniera che produce uranio e terre rare per conto di un consorzio sinoaustraliano. Altri progetti che potrebbero coinvolgere capitali cinesi (e lavoratori cinesi) sono in fase di discussione, tra cui una gigantesca miniera di ferro a cielo aperto nei pressi di Nuuk, una miniera di zinco nel nord e concessioni per l’estrazione di petrolio e gas sulla terra ferma e al largo.

Per i 56mila abitanti della Groenlandia, di cui il 90 per cento inuit, le implicazioni geostrategiche degli investimenti cinesi sono irrilevanti, e forse hanno ragione. A preoccuparli, invece, è qualcosa che sta al centro della politica della Groenlandia: le implicazioni culturali e sociali degli investimenti esteri, cinesi o altrui.

Gli inuit della Groenlandia sono una delle poche società indigene del pianeta ad avere un controllo quasi totale sul proprio destino, ma l’impatto del mondo moderno sulla loro cultura tradizionale è stato distruttivo come in tutti gli altri casi: depressione e altri disturbi psicologici, alcolismo, abuso di droghe e un’epidemia di suicidi.

Consapevolezza sociale
Per questo gli inuit sono davanti a una scelta difficile: provare a proteggere ciò che resta dell’antica cultura artica basata sulla pesca e la caccia, anche se ormai talmente danneggiata da registrare il più alto tasso di suicidi del pianeta? O cercare la salvezza nella piena modernizzazione attraverso la rapida crescita economica, conservando al contempo la lingua locale e tutto ciò che si può mantenere della propria cultura?

L’aspetto più sorprendente della politica della Groenlandia è la consapevolezza che hanno tutti del proprio dilemma e delle diverse opzioni disponibili. “Se vuoi diventare ricco devi pagare un prezzo”, sottolinea Aqqaluk Lynge, tra i fondatori del partito Ataqatigiit (Comunità del popolo) che ha governato il paese fino al 2013.

Lynge e molti altri non volevano pagare il prezzo in questione, e così durante l’amministrazione dell’Ataqatigiit era stata vietata qualsiasi attività mineraria sull’isola. Anche tralasciando le conseguenze ambientali dell’estrazione mineraria su larga scala, l’Ataqatigiit riteneva che le migliaia di lavorati stranieri portati dai progetti avrebbero avuto un impatto devastante su una cultura già di per sé indebolita.

Vulnerabilità e adattamento
Le cose sono cambiate nel 2013, quando il potere è passato nelle mani del partito Siumut, convinto che la modernizzazione sia ormai in uno stato troppo avanzato per essere arrestata, e dunque la cosa migliore è scommettere sulla risoluzione degli attuali problemi sociali permettendo a tutti di vivere un’esistenza pienamente moderna. L’idea di base è che un individuo strappato all’emarginazione e alla povertà vivrà meglio.

Come ha dichiarato nel 2014 Aleqa Hammond, predecessore di Kielsen, “lo shock sarà profondo, ma già in passato abbiamo dovuto affrontare la colonizzazione, le epidemie e la modernizzazione. La decisione che abbiamo preso (aprire il paese all’estrazione mineraria e petrolifera) avrà enormi conseguenze sullo stile di vita e la cultura indigena. Ma alla fine superiamo tutto. Siamo vulnerabili ma sappiamo adattarci”.

Speriamo che Hammond abbia ragione. In ogni caso il dado è tratto. La Groenlandia è avviata verso la modernizzazione e a tempo debito scopriremo se sarà stata una buona scelta. Per gli abitanti della Groenlandia non fa differenza se gli investimenti arrivano dalla Danimarca, dalla Cina o dagli Stati Uniti. L’importante, per loro, è mantenere il controllo politico. Una cosa è certa: non vogliono diventare americani.

Insomma non ci sarà nessun “acquisto della Groenlandia”. Come ha dichiarato Søren Espersen, portavoce per gli esteri del Partito popolare danese, “se Trump sta davvero contemplando l’idea, è la prova definitiva del fatto che è impazzito”.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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