Qualche mese fa ho ricevuto una lettera. Non un’email, un tweet o un sms, ma una lettera scritta a mano. Era di EP, una donna sulla settantina che vive a Londra. Aveva una storia straordinaria da raccontare. L’anno scorso in libreria si era imbattuta nel mio libro su Franco Basaglia, che l’aveva improvvisamente riportata al 1968. Questa è la sua storia.
EP era alla ricerca di qualcosa da fare. Si era laureata in letteratura inglese all’università di Bristol. Era il 1967 e aveva scoperto l’esistenza di un servizio di volontariato che mandava i giovani all’estero a realizzare progetti interessanti.
Uno di questi l’aveva particolarmente colpita. Era piuttosto insolito. Si svolgeva nell’ospedale psichiatrico di un posto del quale non aveva mai sentito parlare: Gorizia, al confine italiano con la Jugoslavia comunista. Si era iscritta. La persona che dirigeva il programma si chiamava Franco Basaglia. Sarebbero stati i primi volontari a lavorare nell’ospedale. Le avrebbero dato un po’ di soldi per le piccole spese. Le informazioni che ricevette erano minime. Avrebbe avuto bisogno di vestiti pesanti e un certo giorno sarebbe dovuta arrivare alla stazione di Gorizia, dove sarebbero andati a prenderla. Tutto qui. Era un salto nel buio. Non era mai stata in un ospedale psichiatrico.
Un posto straordinario
Ma naturalmente l’ospedale psichiatrico di Gorizia nel 1967 non era un manicomio qualunque. Era un istituto trasformato o negato, all’avanguardia nella rivoluzione della cura della salute mentale ispirata da Franco Basaglia e dai suoi colleghi. Non c’erano corsie chiuse a chiave né cancelli. Nessuno era sottoposto al trattamento con l’elettroshock. Nessuno era legato. C’erano frequenti riunioni con i pazienti in cui si presentavano e si votavano mozioni. C’erano un bar gestito dai pazienti e un giornale. Gorizia era un posto straordinario, ed EP sarebbe stata al centro dell’azione. Non si rendeva conto di quello a cui stava andando incontro. Non parlava una parola di italiano.
All’arrivo i volontari furono accompagnati nelle loro stanze. C’erano due inglesi, ma uno sarebbe partito quasi subito per la Sicilia per dare una mano nelle zone terremotate. Non sarebbe mai tornato a Gorizia. Le altre volontarie erano una donna italiana – Silvana Pisa – e una svedese. EP aveva portato con sé la chitarra. Le volontarie avrebbero dormito all’interno dell’istituto, accanto allo studio di Basaglia. Il medico di turno la notte sarebbe stato vicino a loro.
Molti non soffrivano di nessuna malattia mentale. Perché erano lì?
Ben presto le volontarie avrebbero conosciuto l’intera équipe: Lucio Schittar, Domenico Casagrande, Letizia Comba, Giovanni Jervis, Agostino Pirella e Antonio Slavich, oltre a Basaglia e Franca Ongaro, che era spesso nell’ospedale.
Le istruzioni di Basaglia erano ridotte al minimo: “Date uno sguardo in giro e fate qualcosa”. Ed era quello che facevano. Gironzolavano per le corsie (spesso con grande divertimento del personale infermieristico) e parlavano con i pazienti. Cantavano, giocavano a carte, tenevano lezioni di disegno o di inglese e – sempre più spesso – organizzavano uscite con i pazienti, nei paesi e nelle cittadine della provincia, o li portavano semplicemente in visita alle famiglie per la giornata.
Non erano specializzate nella cura delle malattie mentali, e per buona parte del tempo improvvisavano. Ben presto sarebbero arrivate a conoscere molti dei pazienti per nome. EP ricorda ancora oggi i loro nomi e le loro facce. Fu un’esperienza incredibile, a volte stressante ma spesso gratificante. Quei pazienti erano stati liberati dopo anni di internamento, torture e sofferenza.
EP ricorda di averne portati alcuni a Gorizia, a una decina di minuti di strada a piedi dall’istituto, e non potrà mai dimenticare la loro gioia nel vedere la città dalla quale erano stati esclusi per anni, se non decenni. Spesso non riusciva neanche a capire perché erano ricoverati; per quanto poteva vedere, molti non soffrivano di nessuna malattia mentale. Perché erano lì? Che storie si nascondevano dietro alla loro presenza in quel posto terribile anche se in trasformazione?
L’inizio della rivoluzione
EP non sapeva nulla della scelta politica che aveva portato alla nascita dell’istituto; la pubblicazione del rapporto L’istituzione negata, all’inizio del 1968, avrebbe fatto scalpore rendendo Gorizia e Basaglia famosi in tutta l’Italia (e con il tempo anche nel resto del mondo). Non era al corrente delle tensioni all’interno dell’équipe che presto avrebbero portato a divisioni e aspre recriminazioni. Era stata invitata a cena nell’appartamento di Basaglia, dove l’aveva servita una cameriera, e ricorda le continue discussioni, i dibattiti, e il fumo di sigaretta che avvolgeva tutto.
Una volta, un gruppo di persone – pazienti, infermieri, volontari – era stato portato a visitare un altro istituto a Colorno, alle porte di Parma. EP aveva visto come erano veramente i manicomi. I pazienti erano legati. Le loro condizioni di vita erano terribili, scioccanti. Il posto puzzava. Per la prima volta aveva capito quanto era diversa Gorizia. Era un’eccezione, non la norma. EP scriveva lunghe lettere ai suoi genitori, bellissime lettere, che mi ha letto quando ci siamo incontrati. Sono la testimonianza di un esperimento incredibile visto dall’esterno.
Dopo sei mesi, EP lasciò Gorizia. In seguito tornò in visita, ma a quel punto Basaglia era andato da tempo a Colorno, e poi a Trieste, dove continuò a sperimentare e finì per diventare famoso. Dieci anni dopo sarebbe stata approvata la legge 180. I manicomi non sarebbero più esistiti.
L’Italia era all’avanguardia nel mondo in questo, anche se il processo di chiusura degli ospedali psichiatrici sarebbe stato lungo, difficile e controverso. Lo stesso Basaglia non sarebbe vissuto abbastanza per vedere applicata la riforma che portava il suo nome. Ma la sua eredità è rimasta, a Trieste e in altri posti di tutto il mondo, dal Brasile ai Paesi Bassi al Galles. EP ha continuato a lavorare con i bambini disabili e in vari progetti di comunità. Divenne una “basagliana” come molti altri in tanti altri settori. Gorizia era un posto estremamente improbabile per dare il via a questa rivoluzione, ma fu lì che cominciò la “grande liberazione”, cinquant’anni fa.
(Traduzione di Bruna Tortorella)
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