Sarà stata la sua aria da ragazzo, il viso pulito e spesso sorridente, con quella camicia a quadri da adolescente indossata al posto della divisa che lo avvicinava alla gente comune. O sarà stata la sua vaga somiglianza con Barack Obama, quasi che da sola fosse sufficiente a far sognare la più popolosa democrazia a maggioranza musulmana del mondo (dove, tra l’altro, il presidente statunitense ha trascorso alcuni anni della sua infanzia). A ogni modo, quando nel luglio del 2014 Joko Widodo, detto Jokowi, è stato eletto presidente battendo Prabowo Subianto, ex generale dell’esercito ed ex genero del dittatore Suharto, la sua vittoria era stata accolta con entusiasmo anche in occidente.

Joko Widodo durante un comizio a Jakarta, in Indonesia, il 9 luglio 2014. (Darren Whiteside, Reuters/Contrasto)

Molto popolare tra i giovani (oggi ha 2,4 milioni di follower su Twitter), Jokowi si presentava come un self-made man approdato alla politica, il volto nuovo che rompeva la tradizione del paese che da Suharto in poi aveva sempre visto al potere esponenti delle élite. Nuovo, ma non senza esperienza, dato che si era già fatto apprezzare come sindaco di Solo dal 2005 al 2012 e poi come governatore della capitale, Jakarta, fino al 2014. Anni in cui si era dimostrato un amministratore illuminato e attento alle fasce più povere della popolazione in un paese di enormi disuguaglianze, garantendo l’assistenza sanitaria ai più poveri e l’istruzione pubblica, promuovendo le attività culturali fino a fare della città di Solo un brand, lo “spirito di Java”.

In molti, inoltre, vedevano in lui il volto della vera democrazia e della giustizia, in grado di dichiarare guerra al male endemico del paese, la corruzione, rilanciando l’immagine dell’Indonesia nel mondo. Nessuno, probabilmente, si sarebbe mai aspettato che in pochi mesi l’Obama indonesiano avrebbe deluso così le aspettative di chi aveva tifato per lui. E in un modo così raccapricciante.

La notizia della fucilazione degli otto condannati a morte per traffico di droga avvenuta martedì nonostante i ripetuti appelli arrivati dai governi stranieri, dagli attivisti difensori dei diritti umani e dalle famiglie dei condannati ha sconcertato l’opinione pubblica internazionale. Il fatto che sette degli otto fucilati fossero stranieri ha contribuito ad amplificare l’indignazione, e Canberra ha richiamato il suo ambasciatore (due dei condannati erano cittadini australiani). In realtà già a gennaio sei persone, di cui cinque straniere, erano finite sul patibolo dopo inutili richieste di clemenza. Allora era intervenuta all’ultimo minuto, nel tentativo disperato di salvare la vita a un cittadino brasiliano, la presidente Dilma Rousseff. Come è successo martedì, Joko Widodo era stato irremovibile, determinato nella sua battaglia per “proteggere il paese dai rischi legati alla droga”.

L’Indonesia ha una delle leggi antidroga più severe del mondo e Jokowi ha deciso di fare della lotta contro gli stupefacenti la sua battaglia. Fino al 2013 una moratoria di cinque anni aveva risparmiato i carcerati nel braccio della morte. Un’intransigenza, dunque, che lascia di stucco chi aveva seguito fin qui il presidente sorridente e che si colora di nazionalismo quando Jokowi respinge le “ingerenze esterne” di chi critica da fuori la sua politica crudele e irragionevole.

Irragionevole anche perché rischia di compromettere la sorte di decine di cittadine indonesiane condannate a morte – sono soprattutto donne emigrate in Arabia Saudita e in Malesia per lavorare come colf – per crimini che vanno dall’omicidio, al furto, alla stregoneria. Per loro Jokowi si è mosso e ha lanciato appelli di grazia, ma con le 14 esecuzioni ordinate da gennaio a oggi ha perso ogni appiglio. E questo non lo aiuterà a recuperare i consensi calati vertiginosamente dopo i primi mesi di mandato a causa di alcuni scivoloni, tra cui la candidatura di un indagato per corruzione a capo della polizia.

Il sospetto è che l’amministratore illuminato, ma senza esperienza di politica a livello nazionale, non abbia la preparazione per fare il presidente, come scrive Joshua Kurlantzick. Il dato più preoccupante è che la sua caparbietà sembra essere dettata dal tentativo di mostrarsi ai suoi cittadini come un leader forte, capace di usare il pugno di ferro per il bene del paese e che soprattutto non accetta critiche o lezioni dagli stranieri.

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