La pandemia di Covid-19 ha già invaso ogni aspetto della nostra vita. Mentre gli ottimisti sperano che la malattia ci costringerà a riflettere sulle disuguaglianze e sugli ostacoli all’accesso alle cure mediche in tutto il mondo, i realisti sono convinti che l’effetto finale sarà quello di aggravare i divari esistenti.

In Africa la crisi non ha ancora raggiunto proporzioni epiche, ma s’intravedono alcune crepe. In Sudafrica, che ha da poco deciso la chiusura totale delle attività con l’obbligo di restare in casa, i lavoratori hanno cercato di evitare il più possibile il contagio anche quando dovevano viaggiare su mezzi pubblici affollati per andare a svolgere impieghi sottopagati, spesso appena sufficienti a garantirgli la sussistenza, mentre le persone più ricche svuotavano i negozi delle grandi catene per accaparrarsi da mangiare e tutta la carta igienica su cui riuscivano a mettere le mani.

In Sudafrica il governo ha proclamato “lo stato di disastro nazionale” tempestivamente, dopo appena sessanta casi confermati di nuovo coronavirus. Anche il Ruanda e il Kenya hanno adottato misure severe subito dopo i primi casi, tra cui restrizioni ai viaggi e divieti di assembramento in pubblico.

La scelta di bloccare le frontiere per frenare la pandemia fa senza dubbio discutere. Il Sudafrica, per esempio, ha dichiarato di voler costruire una recinzione lunga quaranta chilometri sul confine con lo Zimbabwe. La chiusura delle frontiere può contribuire al distanziamento sociale raccomandato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), ma vale la pena riflettere su come questi provvedimenti possano essere messi in pratica in questi paesi.

Le malattie possono superare con facilità i confini, che sono delle linee immaginarie

Le frontiere nazionali furono tracciate arbitrariamente nell’epoca coloniale ed esistono solo a livello teorico per molte delle comunità che vivono a cavallo di questi confini. Le vediamo su Google maps, ma non impediscono agli scambi commerciali e ai legami familiari che preesistevano al colonialismo di sopravvivere ancora oggi. Si possono chiudere i valichi di frontiera ufficiali, ma non quelli irregolari, sparpagliati lungo centinaia di chilometri di territori, lungo il corso di fiumi e laghi.

Come abbiamo visto con l’epidemia di ebola in Africa occidentale, che è cominciata in Guinea, ma poi ha colpito anche Liberia e Sierra Leone, e con quella di colera scoppiata in Zimbabwe per poi diffondersi in Sudafrica, Botswana e Mozambico, le malattie possono facilmente superare quelle che sono essenzialmente delle linee immaginarie.

Il mito dell’autoisolamento
Conoscendo la realtà sul campo, è curioso che l’Oms e i ministri della salute di alcuni paesi africani raccomandino alle persone di isolarsi volontariamente nelle case se ritengono di essere state esposte al nuovo coronavirus. In Ruanda, per esempio, un uomo arrivato dagli Stati Uniti potrebbe aver infettato la moglie e il fratello, tre dei primi sette casi censiti nel paese. Questo esempio porta a chiedersi: come dovrebbero isolarsi le persone che vivono nella stessa casa?

Gli slum e gli insediamenti informali sono parte integrante di molte città africane. Sono sovraffollati e carenti di servizi anche quando non è in corso un’emergenza sanitaria globale. Ad Alexandra, a Johannesburg, più di 700mila persone vivono in meno di cinque chilometri quadrati; a Mbare, nella capitale zimbabweana di Harare, abitano 800mila persone; Kibera, il più grande slum di Nairobi, ne ospita almeno 250mila e Makoko, a Lagos, conta più di 300mila persone che vivono in palafitte sulla laguna.

Le grandi città sono un problema anche per chi si sposta per andare al lavoro. Chiunque sia rimasto bloccato nel traffico a bordo di un matatu a Nairobi o in un taxi collettivo a Johannesburg con almeno altre dodici persone a bordo sa bene che l’idea del distanziamento sociale tra i pendolari è un mito.

Questi mezzi di trasporto sovraffollati richiedono anche spostamenti e lunghe attese in fila durante le quali un numero ancora maggiore di persone potrebbe essere esposto al contagio

Il nuovo coronavirus ha riportato in primo piano l’importanza dell’accesso all’acqua

Per chi svolge un lavoro d’ufficio può essere pratico “lavorare da casa”, ma se l’unica fonte di sostentamento della propria famiglia è vendere pomodori o vestiti di seconda mano in un mercato informale di una grande città, come si può pensare di farlo “online”? A quel punto la scelta è tra restare a casa e non potersi permettere di dar da mangiare ai figli, o avventurarsi in città e cercare di cavarsela in qualche modo.

L’Oms raccomanda quindi l’isolamento a chi teme di essere stato esposto al virus. La raccomandazione è non condividere il bagno, il soggiorno o la camera da letto con altre persone. Ma come si fa quando si vive in una casa dove la camera da letto è anche la cucina e il soggiorno, da condividere con una famiglia (a volte allargata)? Queste raccomandazioni sono ancora più assurde se l’unica fonte d’acqua è un rubinetto comune o un pozzo, o se bisogna condividere il gabinetto con una decina di altre famiglie. Questa purtroppo è la realtà di molte persone che vivono ai margini della società.

A volte anche nei quartieri ricchi di molte città africane l’accesso all’acqua è difficile. Da una decina d’anni i rubinetti di Harare sono quasi a secco, eppure raccomandiamo alle persone di lavarsi spesso le mani. La minaccia del nuovo coronavirus ha riportato in primo piano l’importanza dell’accesso all’acqua. Anche se danno certi consigli, i governi e l’Oms conoscono bene le condizioni e le difficoltà che queste comunità hanno sempre dovuto affrontare.

Sistemi sanitari in difficoltà
Si è parlato molto dei sistemi sanitari di molti paesi africani e delle difficoltà che potrebbero incontrare a gestire un virus che si diffonde tanto rapidamente. Ci sono casi di paesi come il Sud Sudan e la Somalia, i cui sistemi sanitari sono praticamente crollati dopo anni di conflitti.

In alcuni paesi nell’area del Sahel – Niger, Burkina Faso e Mali – i conflitti in corso costringono le persone a lasciare le loro case e a vivere in condizioni squallide nei campi profughi. E anche nei paesi dove non si combatte, come l’Uganda e lo Zimbabwe, i programmi di aggiustamento strutturale del Fondo monetario internazionale (Fmi) e della Banca mondiale hanno portato a una continua diminuzione degli stanziamenti pubblici a favore della sanità. La dichiarazione di Abuja del 2001, in base alla quale ogni paese avrebbe dovuto dedicare almeno il 15 per cento del suo bilancio nazionale alla sanità, sta ancora prendendo polvere negli uffici delle autorità sanitarie. Nessuno dei firmatari della dichiarazione ha raggiunto gli obiettivi.

Non serve una pandemia per far emergere le lacune della sanità. Se sistemi efficienti come quelli dell’Italia settentrionale possono vacillare sotto la pressione del Covid-19, immaginiamo quale potrebbe essere l’effetto di questa malattia sul personale medico africano impegnato in prima linea, spesso senza la formazione necessaria, gli equipaggiamenti di protezione o i farmaci di base.

Nessuno sa in che modo l’epidemia si diffonderà in Africa. Ma sappiamo che è solo questione di tempo. Non si può fare a meno di chiedersi se per i governi africani, con il sostegno dell’Oms, non sia venuto il momento di fare una lista di raccomandazioni per affrontare i fattori ambientali locali. Il distanziamento sociale potrà forse funzionare in Cina e in Europa, ma in molti paesi africani è un privilegio che solo una minoranza può permettersi.

L’Oms ha fatto bene a offrire una guida e l’accesso a informazioni su un virus di cui fino a diverse settimane fa non si sapeva nulla. Ora però bisogna fare di più per immaginare nuovi modi di concepire i nostri sistemi di governo, tenuto conto di quanto la sanità sia intrinsecamente legata a tutto il resto.

In Africa la lotta al Covid-19 richiederà a tutti soluzioni alternative e una grande dose d’immaginazione.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Quest’articolo è uscito su Al Jazeera.

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