Sembra incredibile, ma tra meno di due mesi ricorrerà il secondo anniversario dell’inaugurazione del sacrario dedicato a Rodolfo Graziani in quel di Affile, un paesino laziale nei pressi di Subiaco. È stato inaugurato l’11 agosto 2012. Si sa che a metà agosto i mezzi d’informazione italiani cercano notizie leggere, notizie da spiaggia: quindi il fatto aveva avuto poca risonanza.

Infatti uno dei primi a dedicare un servizio serio alla vicenda era stata la Bbc, seguita dal New York Times e da altre testate straniere. Quasi due anni più tardi, il monumento è ancora lì: un brutto cubo in tufo e travertino con sopra due parole in lettere cubitali: PATRIA e ONORE.

(Corriere Immigrazione)

Proviamo a ricordare chi era Graziani. Nato vicino ad Affile, era un soldato di professione la cui carriera cominciò in Eritrea nel 1908 e si concluse con la nomina a ministro della difesa nazionale e della produzione bellica della Repubblica di Salò, dove promulgò il famigerato “bando Graziani”, chiamando alle armi le classi 1922-24 dei giovani presenti nel territorio dello stato fantoccio (i renitenti furono condannati alla pena di morte). Dopo la guerra e cinque anni di prigione, nel maggio del 1950 Graziani fu condannato per collaborazionismo a 19 anni di carcere, di cui quasi 14 condonati “per la circostanza attenuante dell’aver agito per motivi morale e sociale”. Quattro mesi dopo il verdetto tornò in libertà e nel marzo del 1953 divenne presidente onorario del Movimento sociale italiano. Morì due anni dopo.

Ma l’essere fascista impenitente è stato forse il minore dei crimini di Graziani. Durante la riconquista della Libia, per “pacificare” la Cirenaica deportò centomila civili in campi di concentramento in cui la metà dei prigionieri morì per malnutrizione e per le terribili condizioni igieniche e sanitarie. Il 20 giugno 1930 scrive a Badoglio: “Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento, che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla fino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica”. Per capire il personaggio, basti pensare che un gerarca non esattamente delicato come Italo Balbo, appena nominato governatore della Libia lo rimandò in patria perché considerava i suoi metodi troppo crudeli.

Dopo un anno in Italia tornò in Africa, questa volta in Etiopia, dove comandò il fronte somalo nell’invasione del 1935-36. Non esitò a usare i gas nervini contro il nemico e arrivò a ordinare il bombardamento di un ospedale da campo svedese. Ma è stato con la sua nomina a viceré, alla fine del 1936, che la sua crudeltà raggiunse l’apice. Dopo un attentato contro di lui da parte di alcuni partigiani etiopici, in cui fu gravemente ferito, autorizzò una rappresaglia indiscriminata nel corso della quale furono trucidati migliaia di civili. Poi passò a eliminare l’intera intellighenzia etiopica, i cadetti di un’accademia militare e perfino gli indovini e i cantastorie, colpevoli di pronosticare la fine del dominio italiano. Dando poi credito alla voce che erano stati i monaci copti del monastero di Debra Libanòs a ispirare gli attentatori, mandò il generale Maletti a uccidere tutti i religiosi del monastero chiedendogli di confermare l’esito delle operazioni con le parole “liquidazione completa”. Secondo Graziani le vittime della strage furono 449. Per due studiosi che hanno fatto delle indagini sul campo negli anni novanta, furono tra 1.400 e duemila, tra cui molti seminaristi minorenni.

Ecco l’uomo commemorato dal monumento di Affile, finanziato con i soldi pubblici stanziati dalla regione Lazio per un progetto che faceva riferimento, nella richiesta di finanziamento, solo al “completamento del parco Rodimonte” e alla “realizzazione di un monumento al soldato”, cioè al milite ignoto. Dopo la presentazione di una petizione lanciata dalla scrittrice italiana di origini somale Igiaba Scego e la protesta di vari gruppi, tra cui l’Associazione nazionale partigiani d’Italia, nell’aprile del 2013 il versamento del saldo di 180mila euro da parte della regione Lazio è stato bloccato dal presidente Nicola Zingaretti in attesa che il comune di Affile apporti “delle modifiche strutturali al monumento e lo intitoli come originariamente concordato ‘al soldato’, facendo scomparire qualsiasi riferimento a Rodolfo Graziani e cancellando questa provocazione, che rappresenta non solo un atto scorretto dal punto di vista legale e amministrativo, ma un’inaccettabile offesa alla libertà, alla democrazia e alla memoria di tutti gli italiani”.

Da allora, niente. Be’, non proprio niente: qualche giorno dopo l’annuncio di Zingaretti, i principali promotori del sacrario - il sindaco di Affile, Ercole Viri, e due assessori ­- sono finiti sul registro degli indagati con l’accusa di apologia di fascismo. E alla fine di maggio del 2014, tre giovani accusati di avere danneggiato il mausoleo con la scritta “Chiamate eroe un assassino” sono stati assolti dal tribunale di Tivoli non solo perché il fatto non sussiste, non essendovi stata nessuna “dispersione, distruzione, o deterioramento definitivo del bene”, ma anche - e qui bisogna ammirare l’eleganza dello schiaffo giudiziario - perché l’impropria destinazione del monumento esclude il fatto che si tratti di un bene pubblico.

Ma quell’orrore è ancora là. Perché?

Per due motivi, credo. Il primo: Affile è un paese un po’ sperduto; se il monumento fosse stato al centro di una grande città non sarebbe stato tollerato (lo so che davanti allo stadio Olimpico di Roma c’è ancora un obelisco che inneggia a Mussolini, ma lasciare in piedi monumenti dell’era fascista è un conto, farne dei nuovi un altro). Ma la “lontananza” di Affile è un’attenuante che chiaramente non sta in piedi: in questa maniera una rimozione geografica diventa una rimozione psico-nazionale.

Il secondo motivo è la politicizzazione della sfera etica in Italia. Qui come in molti altri casi, si perde di vista la distinzione tra ciò che è giusto e ciò che è ripugnante perché tutto viene ridotto a una presa di posizione, una questione tra destra e sinistra, sinistra e destra. Il sindaco di Affile, Ercole Viri, ha giocato questa carta con grande furbizia facendo pubblicare sul sito del comune un’apologia del suo figlio illustre che parte così: “II maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani, figura tra le più amate e più criticate, a torto o a ragione, fu tra i maggiori protagonisti dei burrascosi eventi che caratterizzarono quasi mezzo secolo della storia italiana inclusa tra i due conflitti mondiali; interprete di avvenimenti complessi e di scelte spesso dolorose, Graziani seppe indirizzare ogni suo agire al bene per la patria attraverso l’inflessibile rigore morale e la puntigliosa fedeltà al dovere di soldato”.

Il problema è che Graziani non è criticato “a torto o a ragione”. È criticato a ragione. Sono critiche fondate su documenti e testimonianze e sul lavoro di molte persone, in primis lo storico del colonialismo italiano Angelo del Boca. Da questo lavoro meticoloso si capisce che Graziani era una specie di Himmler italiano, che non si limitava ad applicare le disposizioni già dure dei suoi capi, ma le rendeva ancora più feroci. In molte lettere si vantava delle sue scelte “dolorose”: “Non è millanteria la mia”, scrisse dopo l’eccidio di Debra Libanòs, “quella di rivendicare la completa responsabilità della tremenda lezione data al clero intero dell’Etiopia con la chiusura del convento di Debra Libanòs, che da tutti era ritenuto invulnerabile, e le misure di giustizia sommaria applicate sulla totalità dei monaci, a seguito delle risultanze emerse a loro carico”.

Igiaba Scego parla del monumento a Graziani in Roma Negata, un bel libro pubblicato di recente scritto a quattro mani con il fotogiornalista Rino Bianchi, sulle tracce rimosse o trascurate del passato coloniale che la città ancora conserva. E dopo quella prima petizione che aiutò a far bloccare i finanziamenti regionali al comune di Affile, ne ha lanciata un’altra sotto forma di una lettera aperta alla presidente della camera Laura Boldini, per chiedere di buttare giù il monumento. Io l’ho firmata. Perché il pericolo è che l’Italia si abitui a questo scempio e lo faccia diventare qualcosa che ha una sua dignità per il solo fatto di esistere, per il solo fatto di occupare uno spazio.

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