L’8 novembre abbiamo saputo i risultati delle elezioni statunitensi. Relativamente ottimisti su una vittoria di Hillary Clinton, eravamo rimasti a guardare come da un molo l’onda violenta che incombeva, con il brivido semirassicurato di chi pensa che l’onda ci sfiorerà soltanto. I sondaggi erano come una boa protettiva. Il motivo per cui l’imprecisione di quei sondaggi ci ha fatto sentire così traditi è che erano diventati più di un dato statistico. Erano diventati quasi un feticcio, una rassicurazione contro l’impensabile-che-diventa-vero: questa nuova categoria di shock collettivo che sposta sempre più in là la soglia dello sgomento.

Poche ore dopo la chiusura dei seggi, eravamo già alla ricerca febbrile di spiegazioni. L’opinione pubblica ha passato l’ultima settimana in questa ricerca, tentando quel che si tenta di solito per assimilare l’impensabile. Ha tentato di razionalizzare.

Due narrazioni, in particolare, hanno proposto una spiegazione per la vittoria di Donald Trump. La prima, già applicata alla svolta della Brexit e all’avanzata dei populismi europei, considera il voto della settimana scorsa come un grido di esasperazione delle classi medio-basse. Una rivolta contro gli effetti della globalizzazione neoliberista. Secondo Katherine J. Cramer, l’autrice del saggio The politics of resentment (La politica del rancore), una ricerca sul campo tra i lavoratori del Wisconsin rurale, questa rivolta nasce dalla somma di tre sensazioni: quella di essere sempre meno rappresentati, quella di avere sempre meno reddito e quella di non essere rispettati.

Nella provincia americana l’aspettativa di vita media dei maschi bianchi sta calando a causa dei suicidi, dell’alcolismo e della tossicodipendenza

Leggendo il saggio di Cramer, chiunque viva o sia cresciuto in una provincia rurale o depressa di un paese occidentale rischia di trovare molte somiglianze. L’impoverimento effettivo si mischia a una percezione di impoverimento. I fatti e i fantasmi dei fatti si mescolano velenosamente. Le prospettive esistenziali si restringono. Nella provincia americana, l’aspettativa di vita media dei maschi bianchi sta calando a causa dell’incidenza di suicidi, alcolismo e tossicodipendenza. Nel Veneto profondo e lavoratore in cui sono cresciuto permaneva l’idea di poter migliorare, di mandare i figli a scuola, di mobilità sociale. La promessa della mobilità sociale era una valvola di sfogo per molte tensioni. Oggi che nell’intero occidente la mobilità sociale è annientata, quale valvola di sfogo resta se non votare per candidati violentemente “antisistema”?

Pulsioni da supremazia bianca
La seconda narrazione che ha provato a spiegare il voto americano ha spostato lo sguardo sulla capacità di Trump di tirare fuori il peggio della destra americana. Pulsioni da supremazia bianca e misoginia esplicita.

In questa lettura lo scontro appare culturale più che economico. L’analisi del voto ha rivelato che a votare per il magnate non sono stati necessariamente i “diseredati” ma elettori di ogni fascia di reddito, soprattutto borghesi e piccolo-borghesi; la linea di divisione tra i due elettorati è stata piuttosto quella razziale, con una maggioranza di elettori bianchi schierata per un candidato dalla retorica razzista: colui che non ha sentito il bisogno di dissociarsi quando il Ku Klux Klan ha annunciato una “parata della vittoria” per il risultato del voto, e presidente eletto che ha dato un incarico al suprematista bianco Stephen Bannon.

Se la retorica di Trump suona doppiamente sinistra, è perché non corrisponde solo all’eterno ricorso opportunistico di un populista di destra al vocabolario xenofobo. Corrisponde al sentimento molto contemporaneo che la modernità sia agli sgoccioli, e che questo non lasci più spazio a discorsi politici strutturati ma solo a un senso di panico generalizzato, alla necessità di barricarsi nella “panic room” sociale di una comunità chiusa. Mentre i democratici promuovevano messaggi politici edificanti come “prima donna alla Casa Bianca” e “candidato competente”, Trump ha scartato verso un messaggio postpolitico che potremmo riassumere: “Il mondo è in frantumi, rifugiamoci nella nostra comunità razziale”.

Le due narrazioni sul voto per Trump – addensarsi di vecchi e nuovi umori reazionari, sollevazione di ceti impoveriti – sono state spesso proposte come alternative. In realtà non sono così disgiunte.

Come ha scritto il commentatore politico ed economico Paul Mason, “questa è una ribellione contro gli impatti del neoliberismo, sia quelli positivi sia quelli negativi. L’economia del libero mercato ha liberato due forze che ora stanno collidendo: la rapida crescita delle disuguaglianze, e la possibilità del successo per una donna o un nero o un omosessuale di talento”. Finché l’economia assicurava una promessa di crescita per tutti, gli impulsi reazionari della società restavano sotto controllo, e potevano convivere con il crescente ruolo sociale di donne e minoranze. Ma se i salari ristagnano e il futuro scompare nella nebbia di un continuo stato d’emergenza, coloro che sono – o si sentono – impoveriti, dimenticati o minacciati, non possono più sopportare le conquiste civili degli altri: donne, minoranze, stranieri. Per questo un populista come Trump può cavalcare, in un colpo solo, le onde dell’insoddisfazione economica, del razzismo e della misoginia.

Lo sforzo di razionalizzare
Se queste narrazioni sui motivi che hanno determinato l’impensabile non bastassero, nell’ultima settimana ne sono emerse altre. La Cnn ha elencato ventiquattro possibili spiegazioni. Tutte hanno in comune uno sforzo di razionalizzazione. La mente del cittadino globale cerca di riconciliarsi con l’impensabile così come gli apparati politici di Washington contano di “domare” la personalità di Trump. Fatichiamo ad accettare la nozione di un mondo in cui i “cigni neri” si riproducono a velocità allarmante, e ci osservano con i loro occhi opachi e inquietanti.

Ma accanto allo sforzo di razionalizzare, serve anche quello di fare i conti con l’irrazionale. Il distacco dai fatti, le teorie del complotto, l’allucinazione collettiva non sono novità nell’ascesa di movimenti populisti, autoritari o meno. A essere tipico del nostro tempo è forse il modo in cui l’irrazionale prolifera grazie alla fine di ogni idea credibile di futuro. Il neoliberismo ha consumato il mondo, e la politica – anche quella più competente – stenta ad andare oltre la gestione del presente. L’idea del futuro è in agonia. È un’agonia che a sinistra provoca debolezza e annebbiamento delle coscienze, mentre a destra provoca un fervore apocalittico.

Una manifestazione a sostegno di Donald Trump a Oceanside, California, l’11 novembre 2016. (Sandy Huffaker, Reuters/Contrasto)

Questo deficit di futuro, nelle elezioni americane, si è mostrato subito nello stile di comunicazione di Trump. In un reportage scritto dopo aver assistito a un comizio di Trump, lo scrittore Dave Eggers racconta di come – dopo una lunga fila in compagnia di un signore che gli racconta le sue teorie sulle scie chimiche – si trova ad ascoltare le tipiche incoerenze del magnate. Ma i suoi sostenitori non se ne curano. “I suoi sostenitori non lo ascoltano veramente. Applaudono quando Trump promette che aiuterà i reduci o che costruirà un muro, ma in fin dei conti non sono interessati a quello che dice. Non sono interessati al suo programma. Nessuna scelta politica è importante. Nessuna promessa è importante”. L’improvvisazione assume valore politico. Quando non c’è futuro, perché impegnarsi con progetti coerenti? Restano le improvvisazioni, le azioni di cortissimo raggio.

Ci sono emergenze prodotte dal mondo globalizzato che solo una somma di sforzi globali può provare a risolvere

Il deficit di futuro si mostra anche, soprattutto, nel progetto isolazionista e protezionista di Trump. Così come in quello dei suoi amici europei. Ovunque i populisti di destra promettono maggiore isolazionismo e meno immigrati, meno globalizzazione, meno Europa, meno complessità. Si riferiscono al mondo che l’occidente stesso ha costruito come a un club di cui si può cancellare in un soffio l’abbonamento, senza bisogno di pagare una penale. Meglio ancora, addebitando ad altri questa penale. Il delirio di poter costruire un muro lungo il confine messicano e farne pagare il costo al Messico resta emblematico.

Ci sono emergenze prodotte dal mondo globalizzato che solo una somma di sforzi globali può provare a risolvere o quanto meno mitigare: è il principio, per esempio, degli accordi sul clima come quello di Parigi. Non può sfuggire l’ironia amara che, pochi giorni dopo l’entrata in vigore di quell’accordo, gli Stati Uniti abbiano eletto un presidente che nega l’urgenza della crisi climatica e della necessità di un accordo internazionale. Trump ha definito il riscaldamento globale “una bufala dei cinesi”.

Anche Nigel Farage, l’artefice principale della Brexit, nega il problema climatico. In Francia le posizioni sull’ambiente del Front national sono altamente contraddittorie. Per Trump lo scetticismo sui cambiamenti climatici è funzionale all’idea di un ritorno a un’economia più chiusa, che per essere rilanciata avrà bisogno della rimozione di vincoli ambientali. Il suo “new deal” per l’economia americana intende tornare a investimenti nel carbone e ad abolire le tutele per l’ambiente che Obama aveva faticosamente fatto approvare.

In un sondaggio ripreso da vari mezzi d’informazione internazionali, il 22 per cento di un campione di sostenitori di Trump riteneva che il loro candidato, ora presidente, scatenerà una guerra nucleare. Il fervore apocalittico è assai letterale. Una statistica del genere può restare un dato di folclore tra le pieghe spesso imprecise – abbiamo visto – dei sondaggi. E possiamo augurarci che l’amministrazione Trump non arriverà mai a tanto. Di fatto, potrà bastarle molto meno per condannare il pianeta. L’incarico affidato a Myron Ebell, lobbista delle aziende di energie fossili, alla guida dell’Agenzia per la protezione ambientale americana è una beffa che suona già come un rintocco mortifero. Abbiamo appena assistito alla fine delle speranze di limitare il disastro climatico?

L’alfabeto del nichilismo
Nel corso della sua presidenza Trump ci sorprenderà. Ci annoierà, ci intratterrà, ci sbigottirà, ci darà un nuovo grande cattivo contro cui dirigere rabbia e frustrazione. Alternerà momenti in cui recita la parte dello statista conciliante con momenti da psicopatico. Vivrà in un suo film hollywoodiano e sinistro. Seguirà il copione scritto per lui dalla sua squadra di falchi di ultradestra, dal suo vicepresidente fanatico integralista, e ogni tanto penserà di essere davvero capace di prendere decisioni per il suo paese e per il mondo.

Continuerà a espandere il nostro concetto di impensabile e a trascinarci al centro di un lago popolato di cigni neri. Altrettanto faranno i suoi amici populisti, i nativisti – fanatici della purezza etnica e religiosa – e i nazionalisti, i leader razzisti che sentono odore di vittoria. Tutti insieme, potrebbero infine costringerci a riconoscere che a essere impensabile non è più la loro elezione ma il nostro stesso futuro. In questo, chi considera il risultato delle elezioni statunitensi come una sorta di shock benefico per le nostre coscienze potrebbe avere ragione.

Chiunque sfidi al livello politico i Trump del mondo dovrà disinnescare un intero alfabeto del nichilismo e del rancore. Un lavoro linguistico prima ancora che politico. Dovrà rendere evidente l’insensatezza di reagire ai fallimenti del neoliberismo alzando muri di ogni tipo. Ci sono alternative. Ci devono essere alternative. In un tempo di pressanti problemi globali, c’è un filo che unisce il Wisconsin e il Veneto profondo. Le province inglesi e quelle dell’Europa dell’est, quelle lepeniste e il resto del mondo. Ridare un segno e un senso a quel filo è il problema politico di questi tempi.

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