Nel 2010 uscì un piccolo gioco che piacque moltissimo sia alla critica sia a quella fetta di pubblico abbastanza smaliziata da intercettarlo. Si chiamava Limbo, e aveva la forma di un platform orizzontale in bianco e nero con un’estetica che ricordava le ombre cinesi. L’avventura di Limbo, simile ai giochi classici a scorrimento in cui si cammina da sinistra a destra, ma originale nello stile, nel ritmo e nelle atmosfere, era familiare e allo stesso tempo insolita. Quello che colpiva di Limbo, oltre all’aspetto scuro e metafisico, era l’originalità emotiva, cioè la tavolozza delle emozioni coinvolte. La gran parte dei videogiochi spesso soffre di una certa monotonia emotiva, per cui il cimento, l’eroismo, la paura di morire e la destrezza tendono tendono a saturare lo spettro degli stati d’animo disponibili per chi gioca. La cosa è anche fisiologica per una forma espressiva così giovane.
È una caratteristica che vale spesso anche per i blockbuster del cinema: film di azione e di supereroi che in genere frequentano le stesse emozioni dei videogiochi più venduti di sport, guerra e avventura. Ma negli ultimi anni molti titoli più sfaccettati conquistano le posizioni alte delle classifiche (The last of us, per esempio), ed esiste nei videogiochi una new wave esistenziale che sta superando certi schematismi producendo piccoli giochi molto originali, con atmosfere e personaggi più indipendenti rispetto ai canoni. Lo studio danese Playdead si è messo al lavoro per realizzare il suo secondo gioco subito dopo l’uscita di Limbo. Questi sei anni di lavoro, finanziati anche dal governo danese con un milione di euro, hanno dato frutti impressionanti.
Inside è un gioco senza parole, salvo l’invito iniziale a premere un tasto qualsiasi per partire. Da lì in poi nessuno parla, nessuno spiega, non ci sono scritte né sequenze esplicative. Il protagonista del gioco è un ragazzino vestito di rosso e nero con un volto indefinito. Non sappiamo nulla di lui né di quello che vuole fare, ma è da subito chiaro che vuole andare a destra, oltre le barriere e il filo spinato, mentre uomini che trafficano con dei carichi misteriosi lo minacciano, gli aizzano contro cani, gli sparano addosso. Il ragazzino ha paura ma è determinato, vuole proseguire, superare gli ostacoli risolvendo gli enigmi e raggiungere l’interno, l’inside del mondo inquietante in cui vive. Nello specifico vuole entrare in un complesso colossale che sta a metà tra una fabbrica, un campo di concentramento e un laboratorio militare, dove sta succedendo qualcosa di poco chiaro ma evidentemente spaventoso.
Attraverso l’ignoto
Anche Inside, come Limbo, è un gioco dove un protagonista solo attraversa uno spazio ignoto pieno di pericoli. Ma se quello era un prodotto espressionista, in cui la direzione artistica disegnava un ambiente simbolico ma non realistico, questo gioco è rifinito e limato con una attenzione talmente minuziosa da non sembrare nemmeno qualcosa di costruito o artificiale. Tutto scivola su un piano di plausibilità, anche se siamo in un contesto distopico: un ambiente verosimile in cui alcune delle cose che accadono rispondono a logiche diverse da quelle del nostro mondo. Ma la relazione che si crea con il protagonista, così come il susseguirsi degli eventi e degli ostacoli da superare, portano il giocatore a un livello di immersione nuovo. I puzzle non si ripetono mai abbastanza volte perché si arrivi a risolverli meccanicamente, a ricordarsi che si sta giocando con un pc o una console. Siamo in un videogioco, questo è chiaro, ma niente dello svolgimento di Inside, che dura qualche ora e si può anche concludere in una sola sessione serale fino a notte fonda, antepone le dinamiche di gioco alla crescita del personaggio e allo sviluppo della trama.
Quando una guardia o un cane riesce a intercettare il ragazzino, oppure lui saltando da una piattaforma all’altra manca un appiglio e cade per decine di metri, la morte è rapida, ha suono e animazione inequivocabili. Le prime volte si rimane quasi storditi da una verità così secca, come quando un regista al cinema decide di far morire un personaggio con la rapidità del colpo in testa, che impedisce addii, catarsi e ultime parole. Ma dopo le prime volte che il personaggio muore si percepisce la serietà, anche se sognante, di questa storia. Bisogna rifare, capire come evitare i pericoli e aiutare il ragazzino. Non c’è niente di buffo o rocambolesco: questa non è un’esercitazione.
Inside prosegue nel percorso tracciato in questi anni da videogiochi esistenziali come Papo & Yo, lo stesso Limbo o Journey, ma porta il linguaggio di queste avventure in uno spazio nuovo. Alcuni degli stati d’animo che si provano attraverso il gioco sono simili a quelli di film e libri che condividono queste atmosfere povere di colori ma cariche di ombre, minacce e architetture imponenti. La vera novità è il tipo di relazione che si crea con questo eroe senza eroismo: lo si fa muovere secondo la sua volontà, esplorando un ignoto che sembra più oscuro per noi che per lui, e ci si trova sospesi tra apprensione ed eroismo, libero arbitrio e responsabilità, la difesa del singolo e la causa sociale. Il risultato è unico, non arriva con altri mezzi di espressione, e rende questo gioco un capolavoro dei nostri tempi. Fossero vivi Philip K. Dick, Frank Kafka e George Orwell, andrebbero pazzi per Inside.
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