“Le elezioni saranno decise negli ultimi metri della campagna elettorale”. Almeno a parole Martin Schulz mostra quell’ottimismo che lo accompagna da quando a gennaio è stato candidato alla cancelleria dalla Spd. Ma più ci avviciniamo al 24 settembre, data in cui i 60,5 milioni di elettori tedeschi voteranno il nuovo Bundestag, più si fa forte l’impressione che l’esito più probabile sarà l’ennesima riconferma della cancelliera, ormai quasi eterna, Angela Merkel.
Tutti, ma proprio tutti i sondaggi di fine agosto e dei primi di settembre danno sostanzialmente lo stesso risultato. Vedono la Cdu-Csu tra il 37 e il 39 per cento e la Spd ferma a un misero 22-24 per cento. Sarebbero quindi riconfermati i rapporti di forza tra i due più grandi partiti: nelle elezioni del 2013 i cristiano-democratici avevano totalizzato il 40,5 per cento, i socialdemocratici il 25,7 per cento. E sarebbe smentita quella speranza, fortemente sentita nei primi mesi del 2017, di un cambiamento ai vertici del governo. Allora la Spd, grazie all’“effetto Schulz”, veleggiava a uno stupefacente 32 per cento, testa a testa con la Cdu, e la frase ricorrente di Schulz, “quando sarò cancelliere…”, sembrava di colpo disegnare uno scenario realistico.
Una figura rassicurante e collaudata
A posteriori somiglia a una fiammata effimera, un innamoramento degli elettori tanto entusiasta quanto spurio, seguito dal ritorno a Merkel, alla soluzione di sempre, quella forse meno entusiasmante, ma affidabile, rassicurante, sperimentata, collaudata da ormai 12 anni di governo.
Così la Germania pare accingersi a confermare un ruolo ormai del tutto a sé tra le grandi democrazie europee. La Francia ha visto il crollo del Partito socialista e l’ascesa di Emmanuel Macron e del suo movimento En marche!, il Regno Unito ha prima optato per la Brexit e poi ha regalato un successo elettorale del tutto inatteso al Labour di Jeremy Corbyn, in Spagna il sistema partitico ha sperimentato forti scosse telluriche con l’affermazione di nuovi attori come Podemos e Ciudadanos, lasciando il paese sotto la guida di un governo di minoranza, in Italia l’exploit dei cinquestelle ha seppellito il vecchio bipolarismo. Rimane la Germania, come unico paese a prima vista sostanzialmente stabile nella conformazione del sistema partitico, anzi immobile nei rapporti di forza tra i due più grandi partiti. E quella cancelliera Merkel, al governo dal 2005 e con ottime chances di arrivare al suo quarto mandato, ne è la concreta espressione.
Ma anche la Germania non è più la stessa del 2005. Ha vissuto gli scossoni della crisi finanziaria globale cominciata nel 2007, della catastrofe nucleare di Fukushima del 2011 e della conseguente uscita del paese dal nucleare, della crisi dell’euro del 2011-2012, poi della crisi dei rifugiati del 2015 quando sono arrivati circa un milione di profughi in pochi mesi.
L’inamovibile Angela Merkel ha saputo muoversi meglio degli avversari in questa situazione in movimento
Sono diversi gli indizi di una situazione politica tedesca molto meno cristallizzata di quanto possa apparire. Nel 2016 la Germania, sulla scia dell’emergenza profughi, ha vissuto l’ascesa del nuovo partito populista, Alternative für Deutschland (Afd – Alternativa per la Germania), capace di raccogliere in alcune elezioni regionali voti anche superiori al 20 per cento e accreditata, nei suoi momenti migliori, di un 15 per cento al livello nazionale. Poi c’è stato quell’entusiasmo, del tutto inatteso di consensi per Schulz all’inizio del 2017. Infine, ancora pochissime settimane prima del voto, i sondaggisti hanno riscontrato un dato del tutto inedito negli ultimi decenni: gli elettori indecisi sul loro voto raggiungono il livello più alto, a seconda del sondaggio, oscillante tra il 30 e il 50 per cento.
Vediamo dunque, sotto la coltre di una stabilità apparentemente immutata, un paese dagli umori contrastanti, un paese in cui convivono la voglia di cambiamento, il desiderio di stabilità e soprattutto una gran paura delle minacce di instabilità, provenienti dall’esterno. E vediamo anche che l’immobile, l’inamovibile Angela Merkel ha saputo muoversi meglio in questa situazione in movimento.
I punti di forza di Merkel
Certo, Merkel parte con un grande vantaggio. Economicamente la Germania si presenta come un paese più forte e più stabile che in precedenza. “Mai nella storia i tedeschi sono stati tanto bene”, dice lei, e le cifre sembrano darle ragione. Il paese inanella record nelle esportazioni, la disoccupazione è calata al 5 per cento – dai cinque milioni di persone nel 2005 ai due milioni e mezzo di oggi – e quella giovanile è intorno all’8 per cento. Il bilancio statale vede l’azzeramento del deficit. Anche i redditi hanno ricominciato a crescere. Non a caso circa l’80 per cento dei tedeschi afferma di stare bene. Quindi dipingere la cancelliera come la rovina della Germania è un esercizio alquanto difficile.
Gioca in suo favore, insieme alla stabilità economica domestica, anche l’instabilità politica globale. I più grandi sostenitori (involontari) di Merkel in questa campagna elettorale si chiamano Trump, Putin, Erdoğan, Farage. La Brexit, l’ascesa al potere di Trump, le mosse dell’autocrate turco e la politica di Putin verso l’Ucraina (e non solo) fanno apparire agli occhi di gran parte dell’elettorato tedesco la loro cancelliera come l’usato sicuro, come il timoniere provetto in un mare in tempesta.
Sui rifugiati Merkel ha lasciato il lavoro sporco agli altri, agli ungheresi, ai serbi, soprattutto ai turchi
Inoltre va riconosciuta a Merkel un’abilità tattica senza uguali. Infatti è riuscita a superare la crisi dei rifugiati quasi indenne. È stata la sua decisione dell’estate del 2015 di aprire le frontiere tedesche alle centinaia di migliaia di profughi siriani e non solo (sono arrivati anche tantissimi afgani, pachistani, iracheni o balcanici) a innestare quella crisi poi sfociata in una vera e propria emergenza. Quell’emergenza ha spaccato l’opinione pubblica tedesca come nessun altro fatto politico degli ultimi decenni, ha procurato a Merkel un forte calo di popolarità e l’ha lasciata con un partito fortemente diviso e frontalmente contrapposto agli alleati bavaresi della Csu.
E oggi? I detti popolari decretano che non si possono salvare capra e cavoli, che è impossibile fare la quadratura del cerchio. Merkel invece può. Prima si è accreditata, con successo, anche tra vasti strati dell’elettorato di sinistra come la “cancelliera dei rifugiati”. Poi ha fatto fare il lavoro sporco agli altri, agli ungheresi, ai serbi, soprattutto ai turchi. Grazie ai tre miliardi di euro, pagati dall’Ue, Erdoğan garantisce che non arrivino più rifugiati siriani in Grecia. Di più: con quei soldi il presidente turco ha costruito un muro che blocca direttamente i potenziali rifugiati in Siria.
L’immagine pubblica della cancelliera non ne ha risentito. La voterà chi la ammira per la sua apertura (alquanto breve), ma anche chi vuole la chiusura delle frontiere. Le è stato utilissimo il fatto di aver fatto pace negli ultimi mesi sia con le frange conservatrici della sua Cdu sia con gli alleati recalcitranti della Csu: entrambi le coprono le spalle verso l’elettorato più tradizionale e spesso anche xenofobo.
Smobilitare l’avversario
Su questa base solidissima – una Germania economicamente sana, un mondo in subbuglio, una crisi dei rifugiati messa in sordina – conduce una campagna elettorale secondo schemi ormai collaudatissimi: all’insegna della noia. Tenere bassi i toni, anestetizzare la contesa politica: è questa la strategia che, sembra, funziona a meraviglia. Si chiama “smobilitazione asimmetrica” quella strategia che punta a vendere il prodotto – la cancelliera – senza creare motivi di contrasto atti a mobilitare i seguaci del campo avverso.
E Schulz? Accolto a fine gennaio come il nuovo messia della politica tedesca, come quello capace di scuotere dal letargo ormai decennale i socialdemocratici e le opposizioni tutte, come quello in grado di dare la promessa credibile di porre fine all’era Merkel, è riuscito in ben due miracoli: quello di creare la speranza di cambiamento e quello di sgonfiare quella speranza entro pochissimi mesi.
Va detto che anche lui, come Merkel, doveva far quadrare il cerchio, ma a lui l’operazione non è riuscita. Pochi hanno presente il fatto che la Spd durante gli ultimi 19 anni è stata al potere per ben 15 anni, prima con il cancelliere Gerhard Schroeder (1998-2005), poi come partner nella Grosse Koalition di Merkel (nel 2005-2009 e di nuovo nel 2013-2017). Quindi un attacco frontale contro il governo, alla Corbyn o alla Bernie Sanders, sarebbe risultato ridicolo. Ugualmente Schulz sembrava la soluzione ideale per la Spd: avendo fatto tutta la sua carriera politica sin dal 1994 nel parlamento europeo (incluso lo scontro epico con Berlusconi nel lontano 2003), non era comunque gravato da responsabilità dirette nei governi della Grosse Koalition.
Shulz presenta il suo partito, la Spd, come un partito piagnone
Infatti all’inizio il pubblico tedesco l’ha apprezzato come “nuovo”, ma non ha saputo giocare questa carta, per errori del suo partito, ma anche per errori suoi. Ne è stato un esempio clamoroso il duello televisivo – l’unico di tutta la campagna elettorale – del 3 settembre tra Merkel e Schulz, trasmesso dai quattro canali più importanti tedeschi. Merkel si vanta che dal 2005 il numero dei disoccupati si è dimezzato. E Schulz? Invece di reclamare questo successo per la Spd – che con Schroeder ha fatto riforme incisive, che poi al governo ha avuto i dicasteri chiave dell’economia e degli affari sociali – comincia a parlare dei 2,5 milioni che ancora sono disoccupati.
Presenta il suo partito come un partito piagnone, non riesce a parlare a quella maggioranza di tedeschi che si sentono soddisfatti delle loro condizioni di vita – ma neanche davvero a quelli rimasti indietro, a quelli colpiti dalle riforme di Schroeder e ora orientati verso il non voto, se non per il voto alla Linke o all’Afd.
“Donna senza qualità contro uomo senza profilo”, titolava il magazine Cicero il suo numero sulla campagna elettorale. Infatti Schulz non è riuscito a conquistarsi un profilo netto antiMerkel in questa contesa, e il dibattito televisivo ne è stato la spia. “Più che un duello era un duetto”, ha riassunto un commentatore tedesco. “Schulz non si è candidato come cancelliere, ma come vicecancelliere di una Grosse Koalition”.
Di fatto, le differenze tra i due candidati erano quasi impercettibili, i toni educatissimi. Certo, lo spettatore non sente sempre il bisogno degli strepiti dei Salvini di turno, ma un po’ di polemica, magari con toni civili, non avrebbe guastato. Invece Schulz, incoronato dal suo partito anche perché “non gravato da responsabilità all’interno della Grosse Koalition”, si è rivelato un candidato che opera proprio nel modus delle larghe intese. Sarà perché era il suo modus operandi a Bruxelles (con l’alleato e amico storico, il democristiano Juncker), sarà perché nutre un’ammirazione neanche troppo velata per la cancelliera (altra sua alleata finché è stato presidente del parlamento di Strasburgo).
Rimangono i partiti più piccoli. I verdi e la Linke secondo tutti i pronostici saranno riconfermati con valori intorni all’8-9 per cento. Ma rientreranno al Bundestag i liberali della Fdp ed entrerà per la prima volta l’Afd. Sei gruppi parlamentari, nessuna maggioranza precostituita: è uno scenario mai visto prima in Germania. I governi possibili spaziano dalla riedizione della Grosse Koalition al patto Cdu-liberali alla coalizione Giamaica/Cdu-Fdp-Verdi (chiamata così per i colori dei partiti: nero, giallo, verde). Invece la Spd, al momento, non ha nessuna opzione di potere autonomo. Anche questa è un’ipoteca di cui non si è sbarazzata, avendo escluso fin dall’inizio qualsiasi scenario di governo Spd-Linke-Verdi. Pure di questo ora paga il prezzo.
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